Una pellicola sulla vita di Reginald Dwight, alias Elton John, non poteva correre su binari lineari. In fondo – come ha sottolineato lo stesso Elton in un articolo apparso sul quotidiano The Guardian – la sua vita si è contraddistinta per essere una delle più singolari. E così Rocketman procede assecondando la straripante personalità del suo protagonista.

Il regista Dexter Fletcher, già dietro alla macchina da presa in Bohemian Rhapsody, abbandona i canoni classici del film biografico a favore di un racconto che vira verso l’introspezione, tentando di catturare il vero Elton John, quello nascosto dietro ai glitter e ai costumi sfavillanti. In questo senso la pellicola prende vita attraverso varie forme narrative: in alcune sequenze, come quella in cui compare il brano Saturday Night’s Allright for Fighting, lo stile si avvicina ad uno staging appartenente alla tradizione del musical theatre. La stessa tendenza è riscontrabile all’inizio della pellicola, quando I Want Love diventa un brano corale in cui i membri della famiglia Dwight e il piccolo Reginald esprimono insoddisfazioni e inquietudini. La sequenza ricorda, nei toni e nella messa in scena, la versione teatrale del film Billy Elliott e la connessione non appare casuale, dato che il musical era sorretto da brani scritti da Elton John.

Il linguaggio utilizzato da Fletcher si avvicina anche all’Across the Universe di Julie Taymor, soprattutto per l’impiego dei brani in funzione diegetica. Diversamente da Bohemian Rhapsody infatti, la canzoni non compaiono seguendo una precisa sequenza temporale, ma, come nel film della Taymor, diventano un mezzo per descrivere gli stati d’animo e le azioni dei personaggi. Tiny Dancer sottolinea quindi la solitudine provata da Elton quando è abbandonato dal partner musicale Bernie Taupin, durante una festa a Los Angeles. Allo stesso modo il pezzo da cui la pellicola prende il titolo, Rocketman, simboleggia lo stato onirico in cui il cantante sprofonda a seguito di un’overdose.

Questo procedere della narrazione attraverso vari livelli stilistici rimanda alla vita caotica del suo protagonista. Il meccanismo funziona nella prima parte della pellicola: i sorprendenti numeri da musical e soprattutto la sequenza in cui Elton conquista il leggendario Troubadour fanno sì che il film viaggi su un ritmo incalzante alla Crocodile Rock. Andando verso il finale però, la struttura si inceppa, diventando macchinosa. Ricongiungendosi alla sequenza iniziale – il testo segue infatti una struttura circolare – nelle scene conclusive ritroviamo Elton John in riabilitazione, svestito del costume di scena che indossava all’inizio della storia. Non siamo più di fronte ad Elton John, la maschera, ma Reginald Dwight, l’uomo.

Nell’utilizzare diverse forme narrative, piuttosto che attenersi ai canoni del biopic, Fletcher si avventura in territori già esplorati da Todd Haynes in I’m Not There. Ma se nel ritratto di Bob Dylan la commistione tra generi portava a risultati notevoli, in Rocketman l’incongruenza narrativa finisce per appiattire i personaggi. Ciò non toglie che il film sia un buon prodotto, trascinato dall’ottima interpretazione (anche vocale) di Taron Egerton e dalle belle canzoni di Elton John. Rocketman funziona nello stesso modo in cui ha funzionato per decadi la carriera del suo protagonista: anche se esagerato e incongruente, in alcuni momenti non possiamo far altro che soccombere al suo fascino.