È uno strano periodo. Si stanno storicizzando star dei decenni classici del pop-rock, forse perché lo stesso mercato del pop-rock funziona al giorno d’oggi in maniera talmente prudente da osare molto meno. Vengono creati molti meno personaggi-ready-made com’erano Elton John o Freddie Mercury. Per personaggi-ready-made intendo dire che la personalità e la stoffa c’è già, in un secondo momento il mercato ti scova e fa il resto – oggi si preferisce invece partire dal mercato stresso, il che spiega ad esempio la popolarità dei reality, o fare da balia a baby-artisti ed essere causa prima della loro evoluzione.

Rocketman, dicevamo, è la storia di Reginald Dwight, un ragazzo omosessuale che non riesce troppo ad accettarsi, anche a causa di un padre pessimo e menefreghista. Nonostante il successo e l’amicizia forte con Bernie Taupin, nonostante il cambio di nome per diventare un altro (un vincente), il nostro non è amato e non si ama. È la storia di un membro degli Alcolisti Anonimi, dipendente da sesso, cibo, cocaina e alcol, che riesce a fare un passo avanti verso se stesso e, come recita l’ultima canzone, a essere ancora in piedi nonostante tutto. Infine, è una storia d’amore fra un uomo e il suo pianoforte.

Ma aldilà di questo, Rocketman fa un’operazione molto interessante e forse poco capita dato il riscontro al botteghino inferiore rispetto alle previsioni. Sì, perché a contrario di Bohemian Rhapsody, di cui è uscita anche la versione karaoke – ma dopo il successo planetario – questo film è in effetti proprio un musical, cioè nasce musical. Prende l’idea di Across the Universe (e la sua trama risibile) sostituendo il plot con la vita di Elton John, giocata in maniera molto meno fastidiosa del film sui Queen. Nessun aspetto della vita “dissoluta” di Elton è negato, gli avvenimenti non accurati scorretti sono meno invasivi e il finale non è un dato storico strumentalizzato per far piangere lo spettatore stravolgendo la storia, cosa che trovo di gusto discutibile nella biopic dei Queen.

Qua il risultato è valido, esteticamente ci sono scelte molto belle: per gli amanti del musical, il film vale anche solo per le coreografie di Saturday Night’s Alright, The Bitch is Back, e Rocketman. Mi chiedo che ne sarebbe stato di Bohemian Rhapsody se fosse rimasto nelle mani di Dexter Fletcher. Taron Egerton, con buona pace degli Oscar, è superiore nell’interpretazione a Rami Malek – anche se non saprei dire se l’effetto migliore avviene perché migliore è la resa dell’attore o migliore il materiale su cui l’attore ha costruito il suo lavoro. Poi, intendiamoci, i cliché di questo nuovo genere che glorifica i miti del pop-rock ci sono: il padre è sempre opposto al fatto che il figlio diventi musicista, anche se nel caso di Elton John questo dato corrisponde a verità, a contrario di Mercury. Con l’amico etero un accenno di storia d’amore ci sta bene, ma Your Song l’ha scritta Bernie Taupin e non è stata scritta per Bernie Taupin. Però è interessante ad esempio la figura della madre, personaggio forte e senza filtri, che ama Elton ma gli dice cose che, seppur pesanti, sono nell’immaginario della gente. Per lei, essere omosessuale vuol dire essere condannato a stare solo, mentre noi sappiamo che Elton John ha al giorno d’oggi un marito e una famiglia.

“Musicista” vuol dire non aver mai lavorato sodo per niente in vita sua, quando noi sappiamo che la pressione di una star è molta e molto lo stress. Rimane in testa la scena di Elton, davanti allo specchio, che prende cocaina e cerca di fare la faccia da pagliaccio entrando in personaggio. Quello stesso pagliaccio che l’unico che lo conosce bene, Taupin, poco dopo demolisce in due parole. Elton John è nato il 25 marzo sotto il segno dell’ariete, il cui archetipo è legato all’identità. E questo film parla della costruzione di un’identità personale: come Regie è riuscito a diventare Elton e ad affrontarne il peso delle scelte. Mai senza un tocco flamboyant.