Se si guarda attentamente Tristana e la maschera (1928) di Raoul Walsh, non è solo la presenza di Gloria Swanson a rendere la scena magnetica. C’è qualcos’altro, qualcosa di più minuto, ma che proprio assieme all’attrice si muove sullo schermo, e che nel seguirla ne descrive perfettamente il personaggio: sono le sue scarpe. Realizzate da Salvatore Ferragamo, quelle scarpe ai piedi della diva non sono che un unico esempio delle centinaia di calzature che Ferragamo mise ai piedi delle star di Hollywood, facendoli innamorare non solo delle sue creazioni ma anche della sua persona, tanto da diventare per un certo periodo l’artigiano di scarpe più desiderato della Sun Valley.
Come un accessorio riesca ad essere un mezzo per veicolare ulteriori significati sul film e i suoi personaggi può essere intuitivo, ma Salvatore Ferragamo lo sapeva alla perfezione. Nello studio non solo del comfort (per cui le sue scarpe si caratterizzavano in primis) ma anche delle implicazioni estetiche delle forme e dei colori risiedeva il suo talento, capace di far cambiare volto – e falcata – a chi le indossava. Abile artigiano ma anche inventore geniale (ma forse non altrettanto geniale imprenditore) nel documentario diretto da Luca Guadagnino, Salvatore: Shoemaker of Dreams, Ferragamo si scopre in tutta la sua follia creativa, il suo coraggio e soprattutto la sua passione profonda per il piede e le sue forme. Una passione innata, aiutata da un grande talento, che lo portarono già a 12 anni a padroneggiare perfettamente ogni passaggio della costruzione di una scarpa.
Nel ripercorrere la storia di Salvatore Ferragamo, Luca Guadagnino e il suo montatore Walter Fasano (il montaggio, essendo un documentario, ricopre un ruolo più che mai essenziale per lo storytelling) scelgono di parlare sì dell’uomo, della sua biografia, ne tratteggiano un’agiografia a tratti avventurosa e a tratti privata, ma tradiscono il loro interesse verso questa figura soprattutto nel raccontare il suo rapporto con la storia del cinema. O meglio, del cinema muto. Nel periodo infatti in cui questo visse a Santa Barbara, nacquero e poi fiorirono i primi teatri di posa, le prime case di produzione, e soprattutto i primi divi. Hollywood, nell’iconica scritta, era ancora “Hollywoodland”, mentre gli attori e le attrici non possedevano ancora una dimensione che andasse oltre al mero personaggio del film. Ma è nell’uso delle immagini d’archivio, delle tante interviste non solo ai familiari (che tramandano, giustamente, la vulgata interna) ma proprio agli storici e agli studiosi del cinema che effettivamente esplode, come un’intuizione, la profonda relazione tra moda e divismo, estetica e narrazione, e Ferragamo ci appare allora quasi come l’artefice del divismo stesso attraverso le scarpe. Un’esagerazione, ovviamente, ma che nell’accortezza del montaggio e della scelta delle fonti ti fa cambiare totalmente prospettiva sull’uso dell’accessorio in un film.
Proseguendo poi linearmente nella narrazione di Ferragamo in Italia, Salvatore: Shoemaker of Dreams continua coerente con la sua linea – ovvero il parlare dell’uomo attraverso il filo rosso dell’invenzione e dell’ingegnosità costante, a scandirne la vita stessa attraverso le “trovate” – ma con il finire delle idee dell’uomo si consuma anche l’iniziale potere attrattivo. Salvatore: Shoemaker of Dreams rimane comunque un documentario notevole, di grande perizia storica e dal coinvolgente ritmo narrativo. E anche se forse, presto, ci dimenticheremo della vita di Ferragamo, dopo avere visto il documentario cominceremo ad osservare le scarpe sul grande schermo attraverso una nuova prospettiva.