L’occasione di rivedere Sing ci offre il pretesto per tornare su un cartoon particolarmente intelligente e incompreso. Ecco un’analisi delle riflessioni che l’apparente semplicità del film nasconde tra le pieghe dei suoi formidabili personaggi.

Affascinante per qualità dell’animazione, virtuosismi di regia e caratterizzazione dei personaggi, Sing è un film di respiro internazionale, capace di integrare tanti generi musicali quante sono le specie di animali coinvolte. Rischia di essere ingiustamente liquidato come scaltro prodotto da botteghino: un ibrido tra un backstage musical e una commedia d’animazione con qualche risata e tanta emotività, che infarcisce un plot standard di suggestioni televisive e sfrutta la trasversalità della musica per interessare più generazioni. Tutto qui? A ben vedere, la pellicola di Garth Jennings e Christophe Lourdelet apre una riflessione sul consumo delle merci culturali.

Il koala Buster Moon, neanche fosse un’incarnazione dell’industria culturale, è confuso: da un lato si ostina a rimpiangere il fallimento della Cultura e del teatro come tempio dell’élite artistica, dall’altro subisce e rincorre passivamente il mercato limitandosi allo sfruttamento di format collaudati. Il conflitto si risolve in un talent show, tutti contro tutti: “Questa gara è una guerra. Questo palco è il campo di battaglia. La vostra canzone è la vostra arma”. Schiere di aspiranti cantanti sgomitano per farsi corrompere da una trita declinazione del sogno americano, in vista di un premio economico e  del riconoscimento sociale. Ma – sarà la crisi – al giorno d’oggi certe chimere non reggono nemmeno in un cartone animato.

Così, una provvidenziale inondazione distrugge il teatro e lava via la discutibile ideologia. Morta la Cultura, viva la cultura: eliminata la competizione (e dunque il giudizio), sopravvive l’esigenza di cantare. A questo punto si legittima la creazione di significati personali, ormai completamente emancipati rispetto agli umori del mercato. Sing fa luce sull’immenso patrimonio dell’industria musicale e invita ad attingerne liberamente. Il premio per il consumo attivo non sta tanto nel successo poco più che familiare, ma nella definizione e nella sopravvivenza della propria identità. Utilizzando l’espressione di Paul Willis, si potrebbe dire che qui la musica è celebrata come il veicolo della “creatività simbolica”. Ricostruire il teatro significa allora ripristinare uno spazio mentale, prima ancora che fisico, un santuario dell’immaginario necessario al lavoro simbolico.