Lo spettro dei comportamenti umani coesistenti nelle rovine di Douma è vastissimo e l’umano che vi erra risulta difficile da ridurre a uno dogmatismo di paradigmi e comportamenti che ne oscurerebbe facilmente contraddizioni e sfumature. Come in un qualsiasi teatro di guerra dove si fuoriesce dalle consuete abitudini concettuali, in cui la prassi di vita viene sottoposta a un rovesciamento radicale di norme e azioni per sopravvivere, la Douma assediata è il luogo dell’anomia pura, trovandosi, di conseguenza, privati della propria appartenenza al mondo. E se appartenere a questa Terra significa conservare una specifica identità e memoria, anche la guerra, gli assedi e la sopraffazione che non è più una scelta bensì un obbligo, concorrono a smantellarle, e l’umano diventa disumano.

Nonostante ciò, c’è chi lotta di continuo contro l’incombenza di questi rischi d’involuzione e di dimenticanza: Saeed è un giovane cinefilo che cerca di insegnare ai giovani di Ghouta, in Siria, le regole del cinema, ma la realtà che si trovano ad affrontare è troppo dura per seguire alcuna regola. Il suo amico Milad a Damasco, sotto il controllo del regime, dove sta terminando gli studi d’arte. Un giorno, Milad decide di lasciare la capitale e raggiungere Said nella Douma assediata.

Con Still Recording, seguitissimo dalla SIC fin dalle sue prime fasi di elaborazione, Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub penetrano questo mondo indecifrabile con tutta la loro l’intransigenza e urgenza giovanili e che hanno da sempre contraddistinto una certa maniera di fare cinema; anche se qui, in virtù della valenza globale e universale del messaggio veicolato dai due registi – senza, ed è bene ribadirlo, realizzare un prodotto al servizio di una tesi politica -  si potrebbero arrivare a ridefinire perfino determinate regole di messinscena proprie del cosiddetto cinema del reale. Senza il filtro di giudizi preliminari, trattandosi di un lavoro di osservazione continuativo e inesauribile su ciò che si ha di fronte, Still Recording rifugge dalle semplificazioni inoltrandosi in questa “zona grigia” della realtà, esasperandone e radicalizzandone le componenti attraverso il l’immagine, l’ultima linea di difesa contro il tempo, e il ruolo da essa rivestito.

Saeed e Ghiath si interrogano proprio su questo ruolo e sulla ormai chiara precarietà della loro posizione nella società, in quanto artisti, riflettendo sul modo in cui l’arte si può definire tale in tempi di guerra e rivoluzione e, implicitamente, anche sull’impatto che la suddetta ha sugli uomini e le donne nella concitazione di questi momenti. E per questo, guardando il loro film, si ha l’impressione di assistere alla simultanea e collettiva realizzazione di un manifesto, generazionale ma soprattutto politico, nella sua accezione più autentica e integra. S’impugna la videocamera nella la battaglia per il ricordo, per mantenere vive identità e memoria, come il poeta che nel Lager ripeteva il XXVI Canto dell’Inferno e lo scrittore che diventa tale esclusivamente per testimoniare: e non far morire lo scrittore, o il cameraman, è l’unica e possibile ragione di vita.