Coi venti di guerra civile culturale che spirano dall’altra parte dell’Atlantico, ma più generalmente in un momento storico in cui l’approccio identitario alla politica sembra fomentare più separatismo che solidarietà, rivedere in sala The Celluloid Closet (1995) fa proprio bene al cuore. Al centro del documentario di Rob Epstein e Jeffrey Friedman, ispirato all’omonimo libro dell’attivista Vito Russo, vi è sì la storia particolare della rappresentazione dell’omosessualità nei primi 100 anni di Hollywood, raccontata da professionisti dell’industria e da spezzoni tratti da ben 122 film; ma investita di un afflato ecumenico, se come scriveva Emil Cioran “le esperienze soggettive più profonde sono anche le più universali”.

Fra chi si trovò a lavorare sotto il codice Hays, e chi attraversò Stonewall e l’AIDS, dalle testimonianze intergenerazionali emerge qualcosa che spesso si rischia di dimenticare, stretti fra la Scilla della cancel culture e la Cariddi dell’effetto boomerang: che la radice umana e profonda del desiderio di rappresentazione è il bisogno di uno specchio, la conferma di non essere fantasmi in mezzo a una folla. Perché se la materia prima di cui è fatto il cinema è la vita, vedersi rappresentati sullo schermo è parte integrante dell’imparare a vedersi; ed è Hollywood, la grande fabbrica dei sogni, che ha “sempre insegnato agli eterosessuali cosa pensare degli omosessuali, e agli omosessuali cosa pensare di sé stessi”.

Per la maggior parte della storia del cinema, l’omosessualità venne trattata alla stregua di un fantasma, contribuendo all’invisibilità di una comunità costretta a saziare la sua fame di rispecchiamento con la pratica che Russo, con riferimento a Levy-Strauss, aveva chiamato bricolage: riadattare ai propri bisogni le immagini da un dato contesto, caricandole di significato nuovo. Sin dall’infanzia di Hollywood, come testimonia fra gli altri Chaplin macchinista, l’omosessualità fu allusa anzitutto attraverso lo stereotipo della sissy, l’uomo effemminato, talmente interiorizzato da non richiedere glosse; con l’introduzione del codice Hays nel 1931, poi, arrivò il divieto di menzionare o mostrare esplicitamente la “perversione sessuale”, e il sottotesto divenne un’arte. In ogni caso, il messaggio rimase chiaro: agli omosessuali non era dato essere rappresentati come il gruppo diversificato di persone che erano e son sempre stati, ma al più come macchiette; e poi, da vittime dello scherzo, vittime e basta – esempi patologizzati di devianza, funzionalizzati unicamente a costruire per contrasto il canone della normalità.

Nell’era Hays, l’effemminatezza divenne qualcosa da curare, come in Tè e simpatia; gli omosessuali erano presentati come emarginati da schernire, sinistri depravati o addirittura come mostri, dalla Mrs. Danvers di Rebecca ai vampiri de Le figlie di Dracula. Le cose non migliorarono con la liberalizzazione del codice all’inizio degli anni ’60, quando l’omosessualità guadagnò in visibilità solo a patto di rimanere uno “sporco segreto”: la bugia in Quelle due, o il ricatto in Tempesta su Washington. E come dimostrò Cruising (1980), fra gli altri, neppure quando Hollywood cominciò a produrre film sull’omosessualità cambiò l’adagio secondo cui il destino della non conformità è la morte.

The Celluloid Closet, però, non mostra solo le reticenze del cinema che fu, ma è altrettanto interessante nell’offrire scorci di quello che non poté essere a causa della censura, incoraggiando a leggere fra le righe di film che pensavamo di conoscere per scoprirne rimossi e sottotesti. E fortunatamente, nel finale, non si è rivelato troppo ottimista nell’auspicare il cinema che abbiamo visto fiorire negli ultimi quindici anni – un cinema che finalmente guardi alla sessualità come a una sfaccettatura dell’esperienza umana.

The Celluloid Closet si conclude così come una celebrazione piena di speranza tanto del potenziale mitopoietico della settima arte quanto della cinefilia e dell’attivismo di Russo, da cui il film fu fortemente voluto. Ma l’opera di Epstein e Friedman, più che un semplice adattamento, costituisce un vero e proprio passaggio di testimone. Non solo perché, aprendo nuovi spazi di riflessione al di là dei circoli della militanza, può considerarsi un tributo alle vittorie politiche del suo padre spirituale, che fu figura chiave del movimento di liberazione omosessuale; ma anche perché il libro di Russo nacque da una serie di proiezioni da lui organizzate, accompagnate da discussioni che divennero il materiale per lezioni pubbliche sempre più richieste. La trasformazione in film sembra allora far confluire il destino del progetto con la sua origine – tanto più se, come sosteneva Godard scagliandosi contro il logocentrismo della storiografia cinematografica sua contemporanea, è la giustapposizione fra le immagini lo strumento principe con cui il critico dovrebbe rivelare la storia già insita nel cinema, riportando così all’atto stesso della visione la germinazione del pensiero critico.

È infatti soprattutto nei momenti più ispirati del montaggio che The Celluloid Closet si fa testimonianza preziosa delle possibilità emancipatorie del cinema. Vi è da un lato, nella riappropriazione delle immagini più crudeli, il monito a non dimenticare; è il caso della giustapposizione fra il linciaggio della Creatura de La moglie di Frankenstein con quello di Sebastian in Improvvisamente, l’estate scorsa – al contempo mostro perfetto e vittima perfetta, lasciato senza volto e senza voce a causa delle restrizioni del codice Hays. O della sequenza di morti culminante nel suicidio di Martha in Quelle due, e il lungo, tormentoso primo piano sul volto di Audrey Hepburn in lacrime.

Ma, più luminosamente, la proiezione di The Celluloid Closet ci consente di condividere una felicità in sala: nel ridere senza scherno all’apparizione delle sissies, in quello che finalmente è solo un atto di delizia collettiva e non di oppressione; e più di tutto, nel lirismo della sequenza accompagnata dalle note di Secret Love, mentre gli attimi di fuggente passione fra le vittime designate, finalmente liberati dalla loro cornice di violenza sistemica, si susseguono come fuochi d’artificio sullo schermo.