Mentre il mondo videoludico si prepara ad un importante cambio di generazione con l’arrivo di Play Station 5, la penultima console Sony, ormai giunta alla fine del suo ciclo vitale, si trova ad affrontare le sue ultime grandi esclusive. Tra queste, The Last of Us Parte II: ultimo attesissimo titolo di Naughty Dog, successo di critica e di vendite, importante nella sua capacità di aggiornare lo “stato dell’arte” dei videogiochi.

Il primo The Last of Us nel 2013 era stato titolo di coda per Play Station 3 e si era contraddistinto per le importanti capacità drammatiche; caratterizzate da una semplice variazione sul tema zombie movie, approfondite da personaggi complessi e da notevoli capacità di scrittura focalizzatrici. Il capitolo successivo segue lo stesso modello: continua con la variazione sul tema zombie, con un affidamento a intrecci ordinari (composto da due linee narrative molto comuni per la scrittura di sequel), tutto in una cornice fatta di archi narrativi dei personaggi e caratterizzazioni audaci.

Tanto nella produzione quanto nella ricezione, questo secondo capitolo riesce ad essere sintomo di un’ormai avvenuta legittimazione culturale del videogioco. E non solo all’interno del titolo - dove in un’America post-pandemia composta da città violente e pericolose, gli unici luoghi di rifugio, sono musei o teatri – ma anche nell’approccio culturale stesso. La paternità dell’opera, per esempio, oltre che a Naughty Dog (la software house responsabile dello sviluppo), è attribuita a Neil Druckmann: vero e proprio autore e regista, tra i tanti che nel mondo del videogioco compongono un gruppo ormai solido di “firme” differenti tra loro per poetiche, politiche, provenienze geografiche: un vero e proprio “mondo dell’arte”.

Nelle ultime generazioni, un altro risultato di questa crescente legittimazione culturale è l’approccio estetico sempre più cinematografico; approccio che, però, ha visto una crescente ambiguità, soprattutto se si prende in considerazione il fatto che per raggiungere una condizione sempre più autonoma il medium dovrà emanciparsi, riuscendo a valorizzare al meglio il suo specifico, che sarà tutto fuorché cinematografico. Oltre all’utilizzo longevo di sequenze cinematics e all’impiego di famosi attori (in molti casi, importante selling point), in questi ultimi anni si sono evidenziati ulteriori riferimenti all’estetica filmica. Due esempi offrono lo spunto per alcune riflessioni teoriche.

Il primo è l’eccentrico riferimento alla macchina da presa: in titoli come Death Stranding o lo stesso The Last of Us Parte II, ad esempio, quando piove lo schermo si appanna e quando c’è il sole la luce riflette facendo quell’effetto di “Flare”,  supponendo una presenza filmante, una lente che media. È interessante capire quanto sia ormai introiettata l’estetica da audiovisivo e insistente la ricerca di realismo, seppur mediato. Ma un videogioco non è filmato e questa specificità dall’enorme potenziale viene occultata. Il secondo snodo su cui si potrebbe e si dovrebbe ragionare è il montaggio. Dal momento che un videogioco è totalmente costruito dal nulla e non ha limiti spazio-temporali, perché il montaggio? Perché il campo-controcampo? Certamente si parla di una tecnica complessa, capace di sperimentare e articolare espressioni estetiche, nata come specifico filmico ma che, con il tempo, non ha potuto che riguardare tutto l’audiovisivo.

Non si vuole, quindi, auspicare un futuro di non-montaggio nel videogioco, ma allo stesso tempo, in questi ultimi anni, alcuni titoli hanno saputo promuoverne l’assenza come punto di forza del mezzo. Si pensi all’ultimo titolo della saga di God of War, pensato senza “stacchi” (se così possiamo chiamarli) di montaggio; occasione, però, sprecata dal momento in cui il titolo è stato accolto con un grande utilizzo di terminologia cinematografica: si può veramente parlare di pianosequenza in un videogioco? Si può parlare di movimenti di macchina? Certamente c’è una regia ma è marcatamente diversa da quella cinematografica, anche quando la emula. Bisognerebbe quindi trovare nuovi sguardi analitici per evitare che titoli come God of War vengano misurati con gli stessi pesi di film come Birdman; evitando così la formazione di una spontanea gerarchia di importanza, a favore di un’analisi autonoma ed emancipata.

C’è uno specifico, però, molto evidente, che è capace di rendere il videogioco sempre più autonomo: l’interattività, che vari titoli traducono in esplorazione. The Last of Us Parte II riesce in questo, pur non essendo un titolo open world (ovvero con una mappa aperta, totalmente percorribile e esplorabile in autonomia), a riempire i “binari”, predisposti per il percorso di gioco, di luoghi nascosti ed esplorabili. Non solo, all’esplorazione viene affidato un importante obiettivo di focalizzazione narrativa: i luoghi esplorabili (non sempre obbligatori per proseguire nella storia di gioco) raccontano il passato delle città, nei cassetti degli appartamenti abbandonati ci sono lettere che restituiscono racconti di vite passate, le scritte sui muri, le luci e l’architettura si assumono la responsabilità di raccontare senza dire, senza neanche mostrare, addirittura: raccontare nascondendo. Lasciando, così, allo spettatore la libertà di scegliere se sapere o non sapere, di capire o non capire del tutto; giocando sui non detti, sui nascosti, come il cinema non potrà mai fare.

Possiamo concludere dicendo che il suo successo di critica e di vendite di The Last of Us Parte II (per quanto in parte abbia creato interessanti polemiche che denotano una discrepanza tra gusti di critica e pubblico nel mondo videoludico, di cui ci sarebbe bisogno di parlare) sia indubbiamente un segnale di crescita e un’indicazione di direzione verso cui procedere ed esplorare.