C’è già stato un The United States of America nella filmografia di James Benning – tra i più radicali registi del cosiddetto slow cinema, vero e proprio paesaggista del film – era un corto del 1975 girato insieme alla moglie in cui, tramite una cinepresa montata nei sedili posteriori della loro automobile, riprendeva estratti di paesaggi americani incontrati nel loro viaggio da una costa all’altra. Tra quel corto e oggi c’è stata la rivoluzione digitale che ha stravolto il suo (ma non solo) modo di concepire il cinema, ma l’inclinazione al road movie non è svanita e la vocazione contemplativa a concedere tempo al paesaggio si è presa tutto lo spazio possibile.
Oggi James Benning torna a quel titolo con un nuovo lungometraggio, presentato a Berlino e in concorso all’ultima edizione di Filmmaker a Milano. L’ambizione è la stessa, ma l’idea è ben diversa. Benning guarda a Gli americani di Robert Frank – lavoro fotografico magistrale di fine anni Cinquanta con testi di Jack Kerouac – e da quel reportage sperimentale riprende lo sguardo informale sull’America. C’è un punto chiave da evidenziare però, il suo approccio istintivo e trasparente, il suo cinema diretto, si pone secondo altre regole che sono tutt’altro che istintive e informali.
Benning si impone un’idea strutturata e radicale, su cui non transige. Regole precise che non possono essere aggirate. L’obiettivo è quello di mettere insieme 50 inquadrature per i 50 stati americani. Ma non solo. Il tutto deve essere montato secondo un ordine alfabetico, il più impersonale possibile. Ogni inquadratura deve durare all’incirca un minuto e 40 secondi e deve essere anticipata dalla città e dallo stato di riferimento. Dall’Alabama al Wyoming. Nessuna post-produzione, solo lo sguardo impersonale della macchina da presa, sempre fisso, sempre concentrato su un angolo di “nulla” americano, eppure immersivo, emotivo e sempre aperto a un fuori campo infinito.
Quello di The United States of America più che un controcanto, sembra un contro-controcanto dell’America. Sono questi angoli di “nulla” che sprigionano il vero spirito di una nazione e il ridurre al minimo la presenza umana cancella qualsiasi unità di misura possibile, così da rendere alcuni paesaggi il più inafferrabili possibili. Acquerelli astratti accompagnati da silenzi, cinguettio di uccelli, rumori della strada e programmi radiofonici, per una cornice sonora che – tra un dibattito radiofonico sulle attuali condizioni della comunità afroamericana e uno su quella degli indiani d’America – prende il film e lo trattiene con precisione al presente.
Ma gli Stati Uniti per Benning sono una cartolina, una messa in scena o, ancora meglio, una sineddoche. Non solo perché nel suo cinema un’inquadratura può racchiudere idealmente un intero stato, ma un intero stato può racchiudere tutta una nazione. E qui non stiamo più nella metafora, perché la chiave finale del film (è inevitabile astenersi dal raccontarlo), il colpo di scena, sta proprio nel palesare che tutte le inquadrature sono state girate in California. Mostrare l’auto-inganno percettivo a cui lo spettatore inevitabilmente si è sottoposto, ma anche palesare l’intenzione di creare una narrazione percettiva dell’America, un ritratto immaginario e intuitivo.
Creare movimento palesando l’impressione del movimento. Quasi a dire che la complessità americana non sta nella sua grandezza, ma nella sua impressione di grandezza. Questo il cinema lo sa e Benning lo ribadisce, offrendo questo viaggio statico che si rivela immobile, ma mai chiuso.