Promosso a sceneggiatore della serie televisiva palestinese Tel Aviv on Fire, Salam si ritrova a dover cambiare i destini dei personaggi per assecondare le richieste di un ufficiale israeliano che gli ha trattenuto i documenti al checkpoint. Il secondo lungometraggio del palestinese Sameh Zoabi è una commedia intelligente che vuole raccontare la realtà israelo/palestinese con un linguaggio fresco e divertente. Progetto rischioso? Sicuramente. Tentativo riuscito? Sì, perché, come accade nelle migliori commedie, dietro l’apparente semplicità della storia pulsa un messaggio sociale e politico molto forte. In gioco, qui, è infatti il senso del raccontare, la narrazione vista non solo come successione di accadimenti ma come significato stesso del messaggio. Raccontare qualcosa significa ricordarla, renderla presente, ma anche introdurre nuove prospettive analitiche di un contesto.

Zoabi gioca con l’arte del racconto, alternando – anche a livello visivo – due stili diversi per delineare i confini di due mondi narrativi: quello proprio della soap (con la fotografia “smarmellata”, le opposizioni nette, la recitazione sopra le righe) e quello della realtà, con approfondimento psicologico dei personaggi, evoluzione nei rapporti interpersonali, performance attoriali sobrie anche se caratterizzanti. Semplicità versus complessità, verrebbe da dire. Ma questo è il punto di partenza del discorso alla base del film: tanto i palestinesi, produttori e sceneggiatori della serie, quanto gli israeliani che la guardano e che – nella persona del comandante Assi – vogliono contribuire a cambiarne l’orientamento, sanno benissimo che persino un prodotto come Tel Aviv on Fire è in grado di veicolare un messaggio politico, “antisemita” o “sionista” a seconda dei punti di vista. La soap tratta infatti di un triangolo amoroso tra un terrorista palestinese, la sua amata e un generale israeliano che si innamora della donna non sapendo che è una spia. Il tutto alla vigilia dello scoppio della Guerra dei sei giorni.

Tale contesto storico tocca da vicino il produttore, che attraverso questo show vuole “rimediare a tutto ciò che i palestinesi hanno perso in quella guerra”. L’altra faccia della medaglia è rappresentata da Assi, che pretende da Salam (traslando in chiave ironica un crescendo drammatico che ricorda Misery non deve morire) un matrimonio tra la spia e il generale israeliano per glorificare l’esercito e le ragioni di Israele. Lo sceneggiatore è dunque l’ago della bilancia di un conflitto che parte dallo schermo televisivo e arriva nelle case della gente. Conflitto che appare senza soluzione se un uomo è da alcuni definito un “terrorista” mentre per altri è un “combattente per la libertà”. Rendendosi conto di come per funzionare (anche a livello politico) un’opera televisiva non possa essere decontestualizzata e proporre una visione narcisistica e autoreferenziale, Salam capisce che deve essere la realtà ad influenzare la televisione prima che accada il contrario e questo può accadere solo tramite un ascolto, un riconoscimento reciproco, un passo verso l’altro da parte di ogni contendente. Anche se il rischio di “un’altra Oslo” (ovvero di una “grande illusione che non cambia niente”) è dietro l’angolo, il protagonista non può esimersi dalle “responsabilità verso il suo popolo” che egli ha in quanto sceneggiatore.

Tutti pazzi a Tel Aviv è allora anche una riflessione sul cinema, sia perché mostra chiaramente come il linguaggio audiovisivo possa trasmettere dei messaggi politici, sia perché si fa portatore di un messaggio politico positivo, di conciliazione delle parti (lontana, sì, da una risoluzione del conflitto, ma non per questo meno pregnante), riconoscendo che muovere il primo passo è difficile per chiunque ma ipotizzando che con il dialogo e il compromesso si potrebbe ottenere un miglioramento che soddisfi parzialmente le esigenze di tutti.

Semplicistico? Forse. Necessario? Assolutamente.