“Tu devi tornare a me, vicino a me, ti voglio. Io ti salverò”.

Era il 1958 e Louis Malle faceva pronunciare queste parole a Jeanne Moreau, l’algida Florence in “Ascensore per il patibolo”. Ad ascoltarle Julien (Maurice Ronet), suo amante. Un amore omicida, il loro, in una Parigi rarefatta dai toni noir.  Un amore che sgomita silenziosamente per redimersi dalla viltà e la vergogna alle quali è destinato. Ed è nel 1958 che inizia la tormentata epopea amorosa di Rachel e Philippe in Un amour impossible, decima opera di Catherine Corsini. La regista francese, già esperta nell’arte del raccontare relazioni nefaste, spesso patologiche, omaggia qui il cineasta controverso della Nouvelle Vague. Lo fa non appena presenta i due protagonisti, destinati a vivere un amore pulsionale, impossibile, in cui proprio la viltà e la vergogna sono strumento di sopraffazione e rifiuto sociale e i figli strumento di negoziazione del proprio status.

Lei, Rachel Steiner (Virginie Efira), giovane e sensuale ebrea francese, di umili origini. Lui, Philippe Arnold (Niels Schneider), colto discendente di una famiglia di medici.  Philippe, nel tentativo di ammaliare la ragazza con il suo fascino da intellettuale, la introduce alla filosofia e le arti. Tra queste, il cinema e Malle. Sullo schermo una Jeanne Moreau atterrita e confusa cammina nelle plumbee strade parigine. Quella che inizialmente sembra una citazione cinefila fine a se stessa si rivela in seguito la visione profetica del rapporto tra i due amanti e al tempo stesso una dichiarazione di intenti, rivolta allo spettatore. Rachel è Florence, persino nell’aspetto le assomiglia, ma anche noi lo siamo. La storia alla quale assistiamo è una storia di smarrimento, e sembra di camminare assieme a Florence, disorientati e tesi, senza la promessa di una ricompensa finale. Tuttavia, la maestria di Malle nel rendere silenziosa e affettata la morbosità del rapporto muta qui in ostentata ossessione distruttiva, di tanto in tanto esibita con eccesso di melò che può risultare disturbante.

Dal lungo rapporto, che separa e unisce ripetutamente i due amanti, nasce una figlia, Chantal, narratrice della storia. La bambina, poi donna, diviene il terreno di scontro tra natura e cultura. Il padre è la personificazione del mito della borghesia colta e corrotta, destinata a dimenticare se stessa, tra le macerie di una moralità erosa.  La madre, seppur acuta e determinata, si lascia soggiogare dalla fascinazione dell’amore colto e salvifico, in attesa di essere graziata da un riconoscimento che la emancipi dal dislivello sociale, accettando passivamente di barattare la felicità per un cognome. E Chantal raccoglie i cocci di un riconoscimento di paternità che, una volta ottenuto, la distrugge. Ché la moneta di scambio per essere figlia di due mondi a tal punto inconciliabili è la vergogna.  

È nella rappresentazione dei personaggi femminili, e nel rapporto che instaurano, che è insita la forza delle opere di Catherine Corsini. Donne al contempo potenti e fragili, complesse. Chantal, interpretata nella fase adulta dall’androgina Jehnny Beth, ricorda la Anna Barton di Il danno, ancora firmato Malle. Entrambe irrimediabilmente compromesse dal nucleo familiare, sono eroine alla ricerca del riscatto. Pur nel rancore, nell’impeto distruttivo, riescono a redimersi da una condizione di abiezione sociale alla quale sembrano essere condannate. Con tocco delicato, la regista decostruisce alcuni concetti cardine dell’attuale discorso intorno alla famiglia tradizionale. Possono una madre e una figlia, in assenza di un padre, definirsi famiglia? Evidentemente sì, laddove lo scotto da pagare per conformarsi ai precetti sociali di aggregazione familiare è la perdita della propria identità.

Tra denuncia politica e racconto intimo, Un amour impossible rende omaggio alla Nouvelle Vague e si inserisce a pieno merito nel nuovo panorama del cinema francese, sensibile ai temi pressanti dell’attualità quali la sessualità, la nuclearità familiare, la disuguaglianza sociale.