C’è una sorta di estasi mistica che avviluppa il pubblico dopo aver visto Joker. Un mantra impossibile da scacciare, che recita più o meno così: Joaquin Phoenix immenso/totalizzante; film necessario, specchio dei tempi, Oscar, interpretazione fisica, Taxi Driver contemporaneo. Qualcuno si potrebbe avventurare anche in “un pugno allo stomaco”, ma noi restiamo un passo indietro. Tutto molto vero, comunque. Tutto? Beh, forse non proprio tutto. Perché Joker, a conti fatti, è un film che danza un pericoloso tango con la giustificazione del male, rischiando di incagliare il suo messaggio nell’esaltazione dello sbagliato, e facendo più danni di quanti vorrebbe. Un rischio che il film stesso, purtroppo, contribuisce a creare, mettendo volutamente in crisi lo spettatore (come da programma del regista, Todd Phillips), ma senza dargli davvero gli strumenti utili per comprendere la situazione e, magari, superarla. Quindi andiamo a vedere cosa c’è di potenzialmente sbagliato nell’involuzione di Arthur Fleck, e perché la (quasi) pandemia statunitense rischiava di essere comprensibile.
Da qui in poi seguiranno forti spoiler sulla trama di Joker. Il punto cruciale da cui partire è fondamentalmente uno: gli omicidi di Arthur Fleck sono tutti giustificabili, comprensibili, ragionati. Nessuno viene ucciso senza avergli prima commesso un torto, grande o piccolo che fosse. Arthur è folle perché clinicamente dichiarato tale, ma nella sua lucida e distorta percezione della realtà sa benissimo chi sono i colpevoli del mondo in cui vive. Qui si scheggia il primo ingranaggio: la partecipazione emotiva alla condizione del protagonista. Perché quel marcio senso di “se lo meritavano” arriva dalle fogne della nostra coscienza. E inizialmente è giusto così, Joker vuole farti empatizzare con il male. Il problema è che non smette mai di farlo.
Perché è vero, non è tanto il fatto che manchi Batman, ma che manchi un Batman, una figura positiva da contrapporre ad Arthur. E va bene così, per infilarsi nello schifo della realtà contemporanea è comprensibile, i Batman non esistono. Forse, non ancora. Ma allora… siamo tutti potenziali Arthur? Così sembrerebbe, perché la metamorfosi assassina del clown viene resa plausibile soprattutto a livello emotivo. Arthur Fleck non uccide mai per sadismo, per pura follia, per il gusto di farlo. Arthur Fleck uccide chi ha contribuito a renderlo il Joker. E, una volta finito, sembra non abbia più senso continuare. Anche l’ultimo “nemico”, Thomas Wayne, viene travolto dal suo tsunami. Ma non è lui a ucciderlo. Forse, trovandosi nella situazione, non lo avrebbe nemmeno fatto.
Ma allora il parteggiamento emozionale per Arthur Fleck potrebbe tranquillamente essere totale. Dopotutto, anche Rorschach in Watchmen ammazza gente che se lo merita (certo, in maniera differente rispetto a quelli di Arthur), ma il principio è lo stesso. E, con tutte le idiosincrasie del caso, Rorschach è un eroe positivo. Qui Joker cade dal monociclo spandendo birilli ovunque. In quel “Non ti uccido perché sei l’unico che è stato buono con me”, come se il male puro si formasse solo in risposta a un torto e vivesse soltanto in funzione di ripararlo, pur nella propria distorta e sbagliata percezione. Questo Joker è semplicemente una reazione alla contemporaneità, una reazione comprensibile e terribilmente condivisibile. Il film non mette mai in crisi questo assunto, rischiando di portare Arthur più verso i lidi dell’antieroe rispetto a quelli del mostro assassino. Quando in realtà, sfruttando il personaggio e la sua celeberrima reputazione, così non è. La sua catabasi è soft, ragionata ed empatica, come se davvero bastasse una “giornata storta”: alla fine non è successo niente, la rivolta verrà in qualche maniera sedata, pochissimi piangeranno le vittime, era tutta una battuta che non abbiamo capito. Oppure la rivoluzione è davvero cominciata, ma si basa su premesse (non del tutto) sbagliate.
E non ce ne voglia Michael Moore, che dei tanti temi di Joker si è già ampiamente occupato in maniera perfetta. No, il film è comunque da vedere con le pinze tentando di staccarsene il più possibile a livello emotivo, non rappresenta appieno la società statunitense contemporanea. Perché né Arthur Fleck né il Joker di Todd Phillips vanno a scuola a chiedere “credi in Dio?” uccidendo innocenti a casaccio in base alle risposte. O, per uno strano scherzo, risparmiandoli. Qualcuno, a Columbine, potrebbe dissentire.