L’uomo che amava il cinema. Prima ancora che studioso di levatura internazionale e professore amatissimo dagli studenti cui insegnava la cultura (e la passione) dei film, Franco La Polla era un intenditore. Sapeva trarre dalle proprie visioni quel che un sommelier riconosce nei buoni vini, e con altrettanta severità, era in grado di separare chiaramente le opere buone da quelle cattive, valutare le annate di pregio e le stagioni scadenti, riconoscere i piaceri ben invecchiati contro quelli inaciditi. Insomma: se un cinefilo si riconosce dai suoi gusti, allora La Polla era il più affidabile degli esegeti.

Tra i suoi allievi più diretti (chi scrive ne è stato amico di famiglia e allievo più tardo, in tutti i sensi), Michele Fadda, docente Dams, usò parole bellissime per ricordarlo, e gliele rubiamo: “Come Italo Calvino, Franco aveva provato ad unire in un unico senso la figura di San Girolamo e quella di San Giorgio, l’intellettuale chiuso nel suo studio e il cavaliere che esce dalla sua biblioteca per affrontare il Drago e la vita stessa. Franco sapeva che la cultura non è cultura se non si apre al mondo e agli altri, e che il cinema non è semplicemente cinefilia. Tenendo magari in mente l’opera dei suoi cineasti di riferimento: da una parte François Truffaut e Sydney Pollack, per la loro profonda e autentica matrice umanistica; dall’altra Billy Wilder e Groucho Marx (col quale condivideva la passione per i sigari), per la limpidezza e l’arguzia di una parola che sa anche giocare con la vita, prendendola terribilmente sul serio”. E qui il pezzo potrebbe già chiudersi.

Ma voglio aggiungere altro. Franco se n’è andato decisamente troppo presto. E da dieci anni (sul serio, non per retorica) i suoi amici e colleghi si chiedono, ad ogni film americano che esce, che cosa ne avrebbe pensato lui. Chissà La Polla di fronte alla Marvel. Chissà La Polla di fronte a Joker. Chissà La Polla e Netflix. Chissà La Polla che cosa avrebbe trovato in The Irishman che noi non vediamo. La Polla contro il resto del mondo, in pratica, come ci piaceva vederlo e pensarlo.

Ci manca, insomma. E ci mancherà, a dire la verità, anche per tutto il resto: la sorpresa che avrebbe saputo suscitare con qualche intuizione nuova, l’irritualità con cui si sarebbe smarcato dai rituali convegnistici, il dialogo unofficial, quello che avrebbe concesso nei paraggi delle aule e intorno a un desco imbandito; e perché no qualche franco (di nome e di fatto) rimprovero per cose che lo avevano irritato o deluso. Mi si conceda un aneddoto personale. Una volta, di fronte a un Lagavulin, da me stesso portato a casa sua come omaggio, mi disse: “Grazie, Roy. Ma non aspettarti che con questo la mia opinione verso il tuo ultimo libro migliori”.

Ecco, i maestri.