L’attenzione di Jean-Luc Godard nei confronti della psiche femminile si è sempre contraddistinta per la sottigliezza e delicatezza di uno sguardo che con un solo colpo d’occhio ne avrebbe colto ogni genere di sfumatura, pur rimanendo nella più quieta discrezione. Questa volta è il turno di Juliette, interpretata da una delle tante femme fatale del regista, Marina Vlady, soltanto lievemente percossa dalla frenesia della contemporaneità e del consumismo: ella ne soccombe, senza, tuttavia, uscirne distrutta o completamente annichilita.

Sembra quasi, infatti, che la sua sia una cosciente involuzione verso uno stato d’animo piatto e algido, in cui Godard proietta la sua disillusione nei confronti della corsa al benessere economico: non a caso c’è dell’evidente simbolismo in quest’opera, dalla donna che allude alla città, una Parigi brulicante di quei viventi “già morti” al significato sociale del comportamento di Juliette. A prostituirsi sono lei e la città stessa, entrambe per assecondare le esigenze della società capitalistica.

Perfettamente consapevole delle sue azioni e di ciò che comportano, diversamente dall’ingenua purezza d’intenti della protagonista di Questa è la mia vita, Juliette si muove con una disinvoltura ragionata, cercando di tenere le sue sensazioni quanto più sia possibile sotto controllo.  

Donne e uomini nervosi che vivono in un mondo altrettanto nevrotico, frenetico e congestionato, i personaggi di Due o tre cose che so di lei conservano un involucro impenetrabile e una patina di incomunicabilità impossibile da scalfire; perfino Juliette, pur venendo ripresa da qualsiasi angolazione spaziotemporale in un modo che Truffaut avrebbe definito “insolente come nessuno”, resta un blocco di pietra, algida e analizzata nella sua interezza. Una totalità che viene lentamente e audacemente scomposta, quella di lei e della città che congloba all’interno della sua psicologia.

Godard fa inoltre una riflessione sulla triade linguaggio-politica-società e sui totalitarismi sottesi alla comunicazione mediatica e, principalmente, al meccanismo di progressiva appropriazione, da parte del sistema, delle menti attraverso un determinato, studiato e freddo comportamento linguistico.