Forse c'era un motivo se quel giorno eravamo tutti a bocca aperta. Tra le urla, il frastuono e la polvere, anche filtrati da uno schermo, non riuscivamo a chiuderla. Infilarci dentro un amo era ancora più semplice. Questo è il Dick Cheney dipinto da un Adam McKay mai così vicino a Jackson Pollock. Il vicepresidente degli Stati Uniti che, durante l'11 settembre, ha preso il mondo intero all'amo. È inutile girarci attorno: McKay fa la sua scelta registica e non retrocede di un millimetro. Dopotutto, perché mentre le Torri cadevano e la Terra si fermava, Dick Cheney parlava con il suo avvocato?

Vice fa così: ti prende a schiaffi con il sorriso, lasciandoti un fastidio alle gote impossibile da ignorare. Il film non inizia e non finisce davvero, perché in quella realtà ci siamo ancora dentro. Ecco allora che tutto diventa un patchwork pop, patinato e roboante, mentre fuori c'è la morte. McKay sintetizza la formula per il biopic perfetto, per il suo biopic, tornando addirittura a Lucrezio: mescolando l'utile al dolce, sia per lo spettatore abituato a Michael Moore che riconosce Condoleezza Rice o Colin Powell, sia per chi a Fahrenheit preferisce il Fernet.

Non ci viene lasciato scampo, giustamente. Vice apre l'ennesimo squarcio nella politica americana, tirandoci attraverso la tela per inorridire di fronte al ghigno che si nasconde in piena vista. Perché a Christian Bale basta solo quello per consegnarci il suo Dick Cheney: un sorriso che si taglia come una crepa nel granito. E non ci resta neanche la polvere.

Eppure al vicepresidente noi servivamo eccome, perché l'Iraq non si sarebbe invaso da solo, la sua compagnia petrolifera non avrebbe guadagnato il 500% negli anni successivi alla guerra senza un pretesto; soprattutto, noi non avremmo mai chiesto a gran voce una diminuzione della libertà perché la paura era troppo forte. Ma lui era lì, lieto di abbracciarci. La lenza era abbastanza lunga per tutti. Questo è il filo che McKay fa scorrere lungo tutto Vice, un filo che gronda sangue, colesterolo, petrolio e affetti familiari. Un filo che però, inevitabilmente, viene esteso a tutto il mondo tramite una singola persona: George W. Bush.

Perché è proprio lui la chiave di volta, il frontman della band creata da Cheney. E come poteva essere altrimenti? Bush Junior è un Ron Burgundy con qualche ambizione e mania di protagonismo in più (e, forse, con uno staff in grado di scrivere un gobbo senza errori). Cheney lo avviluppa con facilità nella lenza che avrebbe poi lanciato al mondo. A quel punto serviva solo l'esca, e qui McKay lascia la sala nel dubbio. Ma, riflettendoci un attimo, è il pescatore che infilza il verme nell'amo, non il pesce.