Parte come un film-labirinto Vitalina Varela - ultimo lavoro del regista portoghese Pedro Costa, vincitore del Pardo d’oro al festival di Locarno 2019 - una serie di inquadrature fisse, gente che passa, attraversa porte, da sinistra a destra, da destra a sinistra… poi l’atterraggio di un aereo partito da Capo Verde e arrivato a Lisbona, l’arrivo di una donna dall’alto al basso, i suoi piedi nudi usurati che scendono le scale e un gruppo di donne ad attenderla. Lei è Vitalina Varela, una contadina capoverdiana e le donne sono li per dirle che Joaquim, il marito, è stato seppellito appena tre giorni prima. Da qui il silenzio, il lutto e la ricerca. Perché Vitalina Varela è un’elegia funebre, un viaggio intimo alla scoperta del ricordo, per superare il lutto.
Oltre a quello che ha lasciato a Capo Verde, Vitalina Varela deve fare i conti con il nulla ereditato dal marito e da questo nulla indagare nella sua vita e nelle sue ultime memorie. Rigida e imperterrita, si ritrova a scontrarsi con una realtà disperata fatta di uomini (le donne stanno unite in altri luoghi) disillusi e pentiti, che nascondono verità e segreti personali. Non è solo un film sulla morte fisica, ma anche un film sulla morte spirituale, sulla fede e sulla sua mancanza. Tra i principali ruoli secondari è rilevante la presenza di Ventura (già attore e personaggio iconico del cinema di Costa), un prete che non riesce più a pregare, né a celebrare messa, e insieme all’irremovibile protagonista condivide questo viaggio interiore.
In Vitalina Varela c’è una forte continuità con il percorso artistico intrapreso da Pedro Costa. A ritornare è il discorso sull’immigrazione capoverdiana in Portogallo avvenuta negli anni settanta e le sue conseguenze nella vita del quartiere popolare di Fontainhas a Lisbona (un altro lutto che ritorna, quello di una comunità intera giunta alla sua deriva più totale). Oltre alle tematiche e ai luoghi, però, ci sono anche i personaggi. Ventura tra tutti, era il protagonista del precedente Cavallo Denaro dove Vitalina era comprimaria; qui avviene uno scambio dei rispettivi ruoli e non è un caso che, nel film, la presenza di qualsiasi soggetto femminile sia rilevante e venga insignita di un’attenzione particolare (in momenti specifici e in luoghi esclusivi) e di un’aurea di resilienza che contrasta la disillusione e il pentimento maschile.
A proseguire, nel percorso artistico di Costa, è anche la regia, costruita su una serie di inquadrature fisse “disturbate" da pochissimi movimenti di macchina, sontuosa ed elegante. Una fotografia dai forti toni pittorici - tra le migliori dell’anno - che osserva i soggetti inquadrati fermi o in brevi movimenti come dei tableaux vivants scuri e disperati. Se, allora, la fotografia viene definita “arte della luce”, il cinema di Pedro Costa non può che essere definito “arte dell’ombra”, in quanto il nero avvolge la quasi totalità delle immagini, concedendo spazio e “voce” ai soli piccoli strascichi di luce. Mentre il buio delle ombre crea contrasti stilistici con il colore della pelle nera dei personaggi, mentre il nero insistente viene caricato di tutta la forza funebre del film, la ricerca di una luce che padroneggi l’immagine - lontana da quell’ombra (“da cui tutti proveniamo” dice il prete) - diventa paragonabile alla ricerca di una speranza ritrovata, di una scalinata verso l’alto, di una nuova casa.