Maestro del J-Horror di inizio anni duemila (Kairo, Loft, Castigo), autore di potenti storie crime (The Cure), ma anche regista di acclamati drammi d’autore (Tokyo Sonata), fantascienza (Before We Vanish), thriller (Seventh Code). Kiyoshi Kurosawa è una vera colonna portante del cinema giapponese, e in quanto tale l’aspettativa era alta rispetto al suo Wife of a Spy, thriller spionistico ambientato nella provincia di Kobe negli anni quaranta del Novecento. Perché sul genere, per lui, sembrava fin troppo facile poter giocare. In Wife of a Spy, invece, non solo “la grande storia” rimane irrimediabilmente sullo sfondo, ma anche la parabola dei personaggi non riesce a convincere, riducendo al sentimentalismo più banale una materia fatta potenzialmente di grande dinamismo.
Il film segue infatti la vicenda spionistica dal punto di vista di un personaggio che quasi sempre vi sta fuori, e che degli eventi intorno a sé sembra non capire mai niente. Satoko (Yu Aoi), la titolata “moglie della spia”, assiste al coinvolgimento (spontaneo, mosso da un indefinito umanesimo di fondo attribuito al personaggio a prescindere) del marito Yusaku Fukuhara (Issey Takahashi) nei fatti tragici che stanno accadendo in Manchuria per mano del Giappone, e che Yusaku sceglie di denunciare agli americani. Dopo avere scoperto le intenzioni del marito di portare oltreoceano i filmati-denuncia da lui girati che condannano irrimediabilmente l’operato dei giapponesi, Satoko pone in crisi prima il suo matrimonio poi il suo stesso senso di patria, che comincia a vacillare nel paragone con l’importanza degli affetti.
Sbiadito in un viraggio coloristico stinto e appiattito, di un marroncino che vuole rendere (fallendo) il senso storico dei fatti, Wife of a Spy non ha dalla sua nemmeno l’impianto visivo, che ben poco riesce a fare sulla materia di partenza. Kiyoshi Kurosawa appare sporadicamente nelle scene in cui la tensione è la vera protagonista, o in cui è la tragicità dell’immagine stessa ad essere importante, e allora si fa cupa, orrorifica, riflesso dello spirito di Satoko. Ma per il resto Kurosawa sembra come non esserci, limitandosi al portare in fondo in modo chiaro e conciso la trama del film. Dov’è la tensione? Dov’è la visione partecipata? Dov’è finito Kiyoshi Kurosawa?
L’unica cosa che allora rincuora di Wife of a Spy è l’omaggio di Kurosawa alla storia del cinema, al cinema come dispositivo. Yusaku infatti è un mercante ma anche un grande appassionato di cinema e si diverte a girare brevi film muti: è nella messa in scena di quel passato cinematografico, del film nel film, e della invenzione visiva del found footage girata da Yusaku in Manchuria che Kurosawa si diverte davvero a usare il mezzo.
Per il resto purtroppo Kurosawa manca il bersaglio, sbagliando sia il punto di vista (cosa aggiunge, infatti, lo sguardo di Satoko?) che il tempismo (non può essere una scritta finale a creare finalmente curiosità sull’accaduto): lasciando in bocca il sapore amaro della delusione.