Il grande spirito (Les grands esprits - titolo originale del primo lungometraggio di Olivier Ayache-Vidal tradotto in italiano con Il professore cambia scuola) è quello di François Foucault, professore di lettere di un prestigioso liceo parigino, che per una sorta di sfida al grigiore della sua quotidianità lavorativa ed umana, si ritrova a sperimentare, per la prima volta nella vita, un salto nel buio: abbandonare il lustro di una scuola prestigiosa abitata da alunni viziati ed impermeabili agli stimoli culturali, per avventurarsi in un liceo della banlieue parigina popolato dalla seconda generazione di emigranti da cui ci si aspetterebbe solo il peggio.

Inserendosi in un filone stra-abusato come quello dei film “scolastici”, il regista Ayache-Vidal fa un piccolo miracolo: riesce ad evitare tutti i cliché del genere pur girandoci intorno. E come lo fa? Confezionando un film che avrebbe potuto essere un documentario, usando attori non professionisti (come il bravissimo Abdoulaye Diallo/Seydou), ed una fotografia realistica e non patinata. Per due anni Ayache-Vidal ha seguito dal vero la vita di un liceo nella periferia parigina, osservando ogni movimento di questa comunità per restituire nelle immagini del suo film un racconto il più possibile vicino alla realtà, e certamente molto lontano da un immaginario collettivo catastrofista. Come in altre celebri pellicole scolastiche del genere la trama fa riferimento ad un certo bipolarismo sociale che discrimina tra due “razze” di scuola, la scuola per ricchi con professori competenti e infrastrutture prestanti e la scuola di periferia con il personale più giovane ed inesperto, abbandonato ad affrontare le più aspre situazioni con mezzi di fortuna ricavati dal proprio buon cuore.

Il professore cambia scuola  è un film che deve la sua freschezza al sapore di un mash-up tra pellicole scolastiche della tradizione francese (La classe - Entre les murs 2008 di Laurent Cantet; Essere e avere del 2002 di Nicolas Philibert) a cui sembra rifarsi per l’importante accento posto sul rapporto di fiducia maestro/allievi e altre più internazionali come Dangerous Minds di John N. Smith (1995), interpretato da Michelle Pfeiffer, che torna alla mente per la questione “nera”: lì la professoressa Pfeiffer combatteva per strappare giovani afroamericani di famiglie disagiate a un destino di spaccio e prostituzione, qui il professor Podalydès è alle prese con i figli della banlieue parigina e l’alto tasso di dispersione scolastica. 

Così oltre alla grammatica del film che cattura lo spettatore attirando lentamente la sua attenzione sulla storia narrata con accenti di verità, è il dibattito su un sistema scolastico affaticato nella sua missione educativa a diventare il fulcro della visione e a rapire qualunque spettatore. D’altronde non esiste forse tema più universale di quello della scuola e dell’istruzione: esperienza di vita comune a tutti, nel quotidiano, per un considerevole numero di anni, capace di cambiare i connotati a ciascuno spirito che ne prenda parte. Forse proprio per questo affascina la tesi sposata da Ayache-Vidal: non può esistere relazione educativa senza prima instaurare quella emotivo/affettiva. Gli studenti diventano lo specchio parlante dei loro professori, se trattati con amore rispondono con impegno e rispetto, se nutriti di fiducia, restituiscono successi e buoni frutti. Non sempre ad un elevato tasso di provvedimenti disciplinari e sospensioni corrispondono risultati positivi in termini di recupero dei casi più “disperati”. Esacerbare le risposte di fronte a comportamenti errati degli studenti, elevare le soglie della severità, trincerandosi dietro allo scopo del punirne uno per educarne cento, spesso anziché limitare i danni, scade nel puro autoritarismo.

Ma come insegna questo piccolo grande professore ai suoi studenti, per mezzo di Victor Hugo, la voglia di sapere e di imparare è un afflato contagioso, e il modo migliore per innescarlo è ricostruire un circuito virtuoso di curiosità e sentimento. Il primo a subire la trasformazione sarà lui stesso, come denuncia chiaramente l’uso di un oggetto qui simbolico del personaggio: i suoi occhiali da vista. Questi diventano l’oggetto di scena in grado di estrinsecare i suoi stati d’animo. Ogni volta che li maneggia o li inforca deciso è in preda a rabbia, stizza gioia o commozione. Quest’uomo colto, amante dei saperi trova una relazione più intima col mondo quando rinuncia alle sue piccole barriere, quando si espone, anche fisicamente più nudo, alla materialità dei sentimenti.

Il professor Foucault da grigio surrogato anonimo di un padre celebre, si trasforma così in lampadina capace di illuminare il prossimo. E l’alunno peggiore diventerà il primo discepolo.