Renzo Renzi (Rubiera, 13 dicembre 1919 – Bologna, 17 ottobre 2004), scrittore, critico cinematografico e regista, è tra i fondatori della Cineteca di Bologna che celebra il centenario della sua nascita dedicandogli una mostra di disegni originali di Federico Fellini, provenienti dalla collezione privata degli eredi del critico stesso – felice testimonianza dell'amicizia che li unì per tutta la vita.

L'omaggio a Renzi prosegue su Cinefilia Ritrovata, riproponendo i ricordi dell'intellettuale bolognese (di adozione) a proposito dell'arresto e del processo per vilipendio alle forze armate che, nel 1953, lo vide - suo malgrado - protagonista insieme al critico Guido Aristarco della vicenda. Renzi fu giudicato colpevole in quanto autore di un soggetto intitolato L’armata s’agapò - uno spaccato poco edificante dell'occupazione militare italiana in Grecia – mentre Aristarco fu condannato in quanto editore, per aver pubblicato lo scritto sul periodico "Cinema Nuovo".

La storia venne raccontata per la prima volta nel volume edito da Laterza nel 1954, Dall'Arcadia a Peschiera e successivamente ripubblicata a puntate in "Il Contemporaneo" (n. 42, 43 e 44) nel 1955. Nel 1985, in occasione della messa in onda su Rai 3 del documentario L'armata s'agapò. Il caso Renzi-Aristarco di Pino Passalacqua, Renzi, ripropose il Diario di Peschiera ai lettori del periodico "Bologna Incontri", dandone una nuova versione, con l'inserimento di episodi inediti.

Lo scritto è stato gentilmente concesso da Roberto Olivieri, in rappresentanza del periodico "Bologna Incontri".

 

Ecco il testo di Renzi:

 

Nei giorni precedenti avevamo interrogato molti partigiani della bassa bolognese. È sorprendente conoscere i partigiani della campagna perché sono, fisicamente, assai diversi dall'immagine un po' cartellonistica che ci hanno dato le varie rettoriche. Anzi, la sorpresa sta proprio nello scoprire che gente così umile, dimessa, malvestita, apparentemente così poco fiera, abbia compiuto tanti atti di coraggio e con tanta coscienza, capacità di organizzazione, furberia, intelligenza. Si vede la guerra partigiana come l'espressione di una vita contadina con le beghe paesane mescolate a problemi secolari; si vedono i tipi del posto, i più curiosi, il sindaco, il prete, gli organizzatori, i donnaioli da strapazzo, i vecchi braccianti, le contadine, qualche prostituta, madri di famiglia, maestre, fruttivendole, tutti uniti da una battaglia che dette una svolta singolare al loro carattere, li sorprese nelle loro abitudini per una reazione segreta, un problema vivo, un curioso incidente. E che, quando avevano paura, dicono, diventavano gialli come la polenta.

La mattina del 10 settembre dovevo raggiungere, alle 11, Massimo Mida e la Renata Viganò per andare ancora tra quella gente a raccogliere notizie, frasi, impressioni, a scegliere luoghi adatti per il film su L’Agnese va a morire, che è, appunto, l'esaltazione dimessa, ma viva e penetrante, di una vecchia contadina della bassa, chiamata a combattere i tedeschi assieme ai partigiani delle valli: un esercito senza divise, senza squilli di tromba, senza battute di tacchi.

Alle 10, tranne me, in casa, in Via del Rondone, non c'era nessuno. Arriva un carabiniere e mi chiede di passare un momento dalla locale stazione perché il maresciallo desidera un’informazione. Dico: “Guardi, non posso. Passerò io domani”. “Proprio non può?”. “Non posso, debbo partire. Ma ritornerò in serata”. Il carabiniere era assai gentile, mi guardava un poco impacciato: “Si tratta di una cosa da niente, se la sbriga presto. In mezz'ora se la cava”.”Mezz'ora? – guardo l'orologio – ma sì, ce la faccio. Vengo subito”. “Non importa che venga con me. lo vado avanti – dice il carabiniere – faccia pure con comodo”.

Vado alla stazione dei carabinieri, in Via Pietramellara. Due persone in borghese mi attendono. Mi mostrano un foglio, “è una cosa dolorosa”, un mandato di cattura per vilipendio alle forze armate. Nel foglio c’è anche il nome di Aristarco. “Dovrà venire con noi a Milano. Anzi, a Peschiera. Si tratta di due o tre giorni, l’interrogatorio, se la sbrigherà”. “Guardi – dico – mi lasci andare a casa, ad avvisare i miei. Accompagnatemi voi”. “Non è possibile, è meglio non andare… poi succedono certe scene, i vicini, è meglio evitare”. “Le scene – rispondo – succedono se mia madre non mi vede, se mi vede, la tranquillizzo, glielo dico io, non mi vede scomparire, le dico che si tratta di due o tre giorni, non si impressiona”. I due agenti si guardano. Uno sorride ironicamente, allude a un altro fatto: “Come quella volta, Graziosi!” (credo che abbia fatto il nome di Graziosi). L’altro conclude: “Scriva un biglietto, chieda un po' di biancheria, gliela faremo portare qui”. Insisto: “Accompagnatemi, chi potrà notare qualcosa, perché dovrei farvi degli scherzi?”. Niente da fare, molto cortesemente. “Le manette?” dice uno. “No, no”.

Intanto avevo capito. Il nome di Aristarco, l’unico articolo che io avessi mai scritto su cose militari: L’armata s’agapò, pubblicato molti mesi prima. In coscienza non mi sentivo per nulla colpevole, mi pareva una cosa assurda, una avventura, chissà come andava a finire. Mi ricordai solo per un poco di vecchie esperienze, la prigionia, i tedeschi, le perquisizioni. Mi convinsi che potevo essere abituato ad un arresto.

Di lì a poco mi caricarono sopra un furgoncino con le panche, i finestrini con le sbarre, aperto di dietro. Pensai alla gente che vedeva. Il furgoncino si fermava ai semafori, ragazzi in bicicletta guardavano dentro. Tentavo di non dar peso agli sguardi. Mi sentivo il ladro. Si pensa che la gente immagini che un uomo in mano della polizia deve essere un ladro. L'Italia è, certo, piena di ladri, perché questa è la prima immagine che viene. L'agente in borghese mi sedeva accanto: era un ragazzo come me. Perché la gente doveva pensare che io fossi il ladro e non lui? Lui il ladro ed io il poliziotto, io avevo anche i baffi, lui no. Quando arrivai alla caserma centrale, in Via dei Bersaglieri, cominciarono a sbrigarmi come una pratica. Ogni tanto mi mandavano da una parte, c'era sempre una sedia. Parlavano brevemente tra di loro, a bassa voce. “Andate in treno?”. “No, in macchina”. “In macchina, come mai?”. L'altro mostrava un foglio: “Trasporto straordinario”. Io preferivo la macchina. I due agenti in borghese mi avrebbero accompagnato, uno era il capo. Poi mi portarono in un'altra caserma, sotto un portichetto di Via Vinazzetti. Una donna con la spesa si fermò a guardarmi, proprio me, ero un ladro riconoscibile. Qui mi tolsero tutto, lacci, cinghia, temperino, portamonete, elencando minuziosamente in un foglio. In un cortile umido, con un orto e certi pali appoggiati al muro, c’era la guardina. Un tavolaccio, con una coperta. Vi rimasi tre ore. Cercavo di dimenticarmi. Ero molto avvilito. Avrei voluto subito tentare di spiegarmi con quelli che incontravo, agenti e carabinieri. Due carabinieri giovanissimi vennero ad aprire perché mi comprassi da mangiare: avrebbero provveduto loro, coi miei soldi. Andai anche al gabinetto, sorvegliato. “Cos'è successo?” mi chiesero. “Forse un articolo”. “Perché? È giornalista?!”. La cosa fece impressione. Un giornalista in guardina! Facciamoci coraggio: dalla loro meraviglia compresi che la categoria è stimata. “Di che cosa parlava l'articolo?”. “Della guerra, la guerra di Grecia, ma le forze armate non c’entrano, come dire…”. “Eh. la guerra…”. Se ne andarono parlando della guerra. Erano molto giovani. Pensai che non l'avevano fatta.

Alle tre del pomeriggio vennero a prendermi. Si partiva per il Garda. Mi riconsegnarono tutto, mi rimisi i lacci e la cinghia. Erano corretti e silenziosi. Anch'io cercavo di mostrare la mia correttezza, non dovevano proprio temere. Nella 1100 nera, la portiera dalla mia parte era chiusa, c'era un'entrata sola. Davanti l'autista e il capo: dietro stavo io con l'altro agente. Mi offersero una sigaretta, offersi a mia volta delle caramelle col buco. Alla caserma del mattino mi consegnarono una borsa con le camice; mia madre si era ricordata anche del dentifricio e dei fazzoletti. Seppi poi che un carabiniere l'aveva aiutata a scegliere le maglie nei cassetti, perché lei aveva perso completamente la testa. Girando come una disperata da una caserma all'altra, soltanto verso sera le dissero dove mi avevano portato. Ai colleghi, informati della sparizione, che venivano a chiedere notizie, non voleva dire nulla perché si vergognava di avere un figlio in prigione. “Lasciatemi stare” gridava; pensava che se non avesse detto nulla, non lo avrebbero appreso.

L'autista era un giovane grasso, coi baffi. L'avevo visto per Bologna altre volte, senza sapere che facesse quel mestiere. Parlava col capo, un siciliano: elogiavano il paesaggio di città conosciute in occasione di altri trasporti. Non potevo certo immaginare che l'autista sarebbe morto, in serata, durante il ritorno e che, essendogli stati trovati certi documenti in tasca, in un primo tempo lo avrebbero scambiato per Fanfani. mettendo in subbuglio alcune redazioni. A Verona il caposcorta mi offri un caffè, in un bar del centro. Qui eravamo gente qualunque, quattro uomini di passaggio. Avrei desiderato offrire io il caffè.

A Peschiera incontrammo altri due agenti che andavano alla stazione, uscendo dalla fortezza. Essi avevano già fatto il loro servizio, un “trasporto” da Milano. Era Aristarco. All'ingresso della fortezza lessi: Stabilimento di pena. Un caporale chiese di depositare le armi, secondo il regolamento. Lo chiese anche a me. Evidentemente qui non avevo una faccia da ladro. Gli agenti consegnarono la pistola. Quando fui preso in forza dal sottufficiale di servizio, i miei due accompagnatori diventarono allegri. Si erano tolto un peso (è vero, io potevo anche tentare di scappare!). Perciò mi fecero molti auguri e se ne andarono a Milano. Poi venne il vice comandante del carcere, si accertò che ero ufficiale, allora cercò di confortarmi. Era anch'egli abbastanza cordiale.

Dopo avere attraversato un certo numero di cancelli neri sempre aperti e richiusi con grosse chiavi, alle 19 avevo già la mia cella, bianca, con un letto, un tavolo, due sedie e un buiolo. Alle 19.30 mi portarono il primo rancio; alle 20.30 usai per la prima volta il buiolo. La sentinella, dal finestrino, mi guardava con curiosità. Ma io non mi vergognavo più. C’ero dentro fino al collo. L'interno della fortezza è sorprendente perché assomiglia moltissimo alle scenografie della Giovanna D’Arco di Dreyer: muri bianchi, volte a botte, archi bassi e cancelli neri. Prima dell'interrogatorio per la istruttoria il detenuto non può vedere nessuno. Rimane in cella isolato dagli altri. A me dettero il permesso di camminare in cortile per mezz'ora al giorno, (si dice: “dare mezz'ora d'aria”). Guardavo gli altri, in un cortile accanto, oppure mentre passavano davanti alla mia cella, per rientrare nelle loro. Quando passavano, si fermavano per un attimo, sorridevano come per dire: “Ci sei anche tu. Porta pazienza”. Io stavo disteso sul letto. La solitudine, in uno spazio così stretto, chiusi a chiave, fa paura. Ci si sente buoni, vittime dell'ingiustizia; poi si fa il bilancio della propria vita, ci si scoprono addosso molti peccati. Ma peccati d'altro genere, non quello di cui si è accusati.

Di notte la luce resta accesa, perciò è difficile dormire. Del resto bisogna che le sentinelle siano in grado di controllare che il detenuto non tenti di fuggire, scardinando le inferriate oppure impiccandosi. Ciascuno, nella solitudine, vinto dall'incubo del processo, se lo immagina continuamente, domande, risposte, domande, risposte: riuscirà a spiegarsi, quando si sente innocente? riuscirà a cavarsela, quando non può negare la propria colpa? Ogni notte, in ogni cella, avvengono tanti processi, quanti sono i detenuti che li attendono. Ma la sofferenza un poco consola: perché pare che essa faccia meritare l'assoluzione. Se ho già sofferto tanto, perché dovrebbero infierire ancora? Io sono certamente innocente.

Come potranno non capire che io volevo riscattare il soldato italiano attribuendogli un peccato minore (quello degli amoreggiamenti) proprio perché esso dimostrava l'inesistenza del peccato maggiore, cioè lo spirito di sopraffazione e di strage? È una impostazione tanto incomprensibile? Certo, non potevo rappresentare la nostra occupazione in Grecia come una serie continua di atti angelici da parte nostra: perché è evidente che la guerra è pur sempre la guerra, cioè una condizione di vita brutale e straordinaria. Ma come potranno non capire che l'attacco è diretto al fascismo e non ai soldati che esso aveva posto nella condizione di aggressione? Vilipendio dell'Arma di cavalleria? Ma perché avrei dovuto farlo? Sono quindici anni che scrivo sui giornali: capita, spesso, di essere male interpretati. Ma non è abbastanza chiaro quello che ho scritto stavolta? Non si capisce che volevo collocare l'atto della scomparsa della cavalleria in una particolare situazione storica, vedendo e giudicando l’atto stesso non isolato in sé, ma in rapporto a tutti gli elementi che lo circondavano? Cos'è il “grottesco” se non la combinazione di elementi disparati e assurdamente contrastanti, come possono essere l'eroismo dei singoli, l'inadeguatezza dei mezzi, le pretese colpevolmente retoriche della guerra provocata? Si continua per ore, le due, le tre, si vede l'alba. Quale potrebbe essere la condanna? Ma poi, perché dovrei essere condannato per una colpa che, in coscienza, so di non aver commesso?

I primi giorni, sempre solo, mi sentivo abbandonato dal mondo. Finché una sera un soldato mi portò, all'improvviso, un gran pacco contenente dolci, frutta, baci di cioccolata, biscotti e sigarette: coi saluti di Visconti e di Girotti. Sì, erano venuti quelli del cinema. Visconti stava girando la battaglia di Custoza lì vicino, a Valeggio, per il film Senso. Era venuto alla fortezza, accompagnato da alcuni collaboratori, ed aveva tentato di vederci. Non ci era riuscito.

Ma, allora, di fuori si erano accorti del nostro arresto, se persino Visconti si era mosso!

(Renzo Renzi, In fortezza, “Bologna Incontri”, febbraio 1985, pp. 37-39)

 

Nella foto: Giulietta Masina, Federico Fellini e Renzo Renzi in occasione della prima bolognese di La strada (1954).