Presentato in anteprima lo scorso sabato 28 febbraio 2015 alla Cineteca di Bologna all’interno di Visioni Italiane, il vincitore del Premio Mutti-Amm 2014 è una pellicola che trasuda di grande spirito per il sociale. La condizione di rifugiato politico comporta l’essere un esiliato poiché non si può mai lasciare il paese in cui si è richiesto asilo. Ci si ritrova dunque senza cittadinanza e prigioniero di due stati, quello da cui si è fuggito e quello in cui si è trovato accoglienza. Un cittadino del nulla.

Parte molto bene il film di Razi Mohebi. La storia di Monira, rifugiata politica afghana costretta ad affrontare i mille problemi che le si presentano sul territorio italiano, è raccontata ponendo in evidenza il contrasto tra la fragilità della protagonista e l’irruenza del mondo in cui è capitata. Nei primi minuti a dominare la scena è il continuo vociare di una crudeltà visionaria. Monira si ritroverà, insieme ad altri rifugiati, a subire le vessazioni di personaggi surreali decisi a far loro capire di non contare nulla attraverso un linguaggio irrisorio, alla stregua di quello delle maestre d’asilo quando spiegano la lezione. Come una moderna Alice, Monira si ritrova catapultata in un paese affatto pieno di meraviglie, nel quale non potrà far altro che assistere in silenzio ai suoi orrori.

Non ci facciamo una gran figura noi italiani in questo film. Mohebi vuole sbatterci in faccia l’inadempienza totale dello Stato nell’affrontare situazioni delicate come quella presentata. E lo fa andando a raccogliere una storia laddove l’indifferenza costruisce innumerevoli muri. Non è difficile scorgere la stessa nobiltà d’intenti che anima altre due pellicole del festival: Roma Termini di Bartolomeo Pampaloni e Sexy shopping di Antonio Benedetto e Adam Selo. Ci sentiamo tutti un po’ in colpa dopo aver visto queste opere. Mohebi riversa sullo schermo il vissuto delle proprie esperienze personali (dal 2007 è rifugiato politico in Italia insieme alla moglie e al figlio poiché per il tipo di cinema che fa è finito nel mirino dei talebani) e racconta le vite di queste persone “invisibili”, di questi “uomini indefiniti”, con disillusione e amarezza nonostante la simpatia che ha saputo sprigionare alla presentazione del film.

Va detto che nella seconda parte, dopo un inizio col botto, Cittadini del nulla perde di ritmo nel momento in cui Mohebi, stando alle sue parole, cerca di attingere alla “grande tradizione del cinema iraniano, quello di Panahi e di Kiarostami, un cinema dove contano più le immagini rispetto ai dialoghi e dove molto viene detto per metafore”. Dopo aver cacciato Monira e gli altri rifugiati dalla fabbrica abbandonata in cui vivevano, il legittimo proprietario della struttura comincia a interrogarsi su quelle persone e girovagando trova il diario della protagonista. Qui la narrazione si dilata e il film cerca di essere toccante senza averne onestamente né le capacità né i mezzi. La sensazione è che venti minuti in meno avrebbero giovato all’economia e all’organicità della pellicola.