Dal Mago di Oz a Hocus Pocus, da Macbeth a The Witch, passando per Inferno e Operazione Paura, la rappresentazione delle streghe al cinema ha attraversato epoche e generi diversi, ma restando per lo più ancorata nell’immaginario collettivo come creatura potente e misteriosa, capace di esercitare fascino e paura più che empatia e comprensione.

Sono le stesse immagini, tratte da decine di film, quelle di cui si serve Elizabeth Sankey per costruire gran parte dell’impianto visivo del suo Witches (presente su MUBI), film documentario ispirato alla vicenda autobiografica della regista, in cura per diversi mesi per depressione post-parto in un reparto psichiatrico di un ospedale londinese. Attraverso la sua esperienza, Sankey traccia una linea di unione con quella di altre donne che hanno condiviso la sua stessa situazione, e, immaginariamente, con le donne condannate per stregoneria nel corso della caccia alle streghe avvenuta in Europa e Nord America nel ‘600 e ‘700.

Attraverso la sua narrazione – data del suo voice over sulle immagini delle streghe della storia del cinema, alternata alle testimonianze dirette delle donne intervistate – Sankey crea un accostamento tra il concetto di “strega” e le donne che soffrono di disturbi mentali, soffermandosi in particolare sulle condizioni post-parto, tracciando un collegamento tra passato e presente, a evidenziare come lo stigma sociale renda ancora difficile per molte madri parlare della loro salute mentale per la paura di essere giudicate e allontanate dai propri figli.

Leggendo estratti delle confessioni delle donne bruciate al rogo per stregoneria, che raccontano di demoni che chiedevano loro di uccidere i loro figli o di altre immagini orrorifiche, si evidenzia un parallelismo con le immagini e i pensieri esperiti dalle donne che hanno sofferto di depressione e psicosi post-parto. In particolare, viene citato un caso che ha avuto particolare risonanza nella comunità medica del Regno Unito, quello di Daksha Emson, giovane psichiatra che, nel 2012, si uccise, trascinando con sé la figlia neonata. Emson, secondo quanto riportato anche dal marito, già in cura per depressione maniacale, aveva nascosto a tutti la sua condizione, per paura che sua figlia le venisse portata via.

“Diventare una strega”, significa, quindi, perdere il controllo, diventare ciò che la società ha sempre stigmatizzato e condannato, e una delle figure che più, ancora oggi, corrisponde all’idea di “sbagliato”, “cattivo”, “contronatura”, è proprio quello della cattiva madre, in tutte le sue accezioni, per arrivare alla peggiore, colei che uccide i suoi stessi figli. Il lavoro di Sankey è coraggioso e essenziale perché parla di depressione post-parto senza mezzi termini, portandone alla luce i lati più oscuri, i pensieri omicidi e suicidi, addentrandosi nelle zone d’ombra più impervie e spaventose senza i filtri dell’autoironia o della commedia.

L’accostamento alla figura della strega è un capovolgimento dello stigma che si veste di solidarietà femminile più che di empowerment: Sankey accosta la sua figura – e quella delle altre donne che hanno condiviso con lei la sua stessa esperienza – a quella di un covo di streghe, non solo per rivendicare il diritto alla non-conformità e alla diversità, ma per denunciare come la narrativa sociale intorno alla maternità sia così idillicamente perfetta e i tabù intorno a questo argomento così radicati da acuire la sensazione di paura e isolamento delle donne che, al contrario, vivono la maternità in una situazione di disagio psicologico.

Witches si tinge così di una forte connotazione politica, chiamando in causa l’assenza di un adeguato supporto alla maternità da parte dei sistemi sanitari nazionali, in particolare nella tutela delle madri appartenenti a gruppi etnici minoritari o marginalizzati, e il mancato riconoscimento ottenuto da molte patologie che riguardano esclusivamente il corpo femminile. La connotazione sociale e politica del documentario mette in risalto, ancora una volta, le problematiche derivanti da una società di stampo patriarcale, in cui la donna è vittima di stereotipi dicotomici, in cui la complessità psicologica viene sacrificata in nome di un giudizio urlato al termine di un processo fittizio, che decide se può essere considerata, o meno, socialmente accettabile, o se è, invece, una strega.

Che potere hanno, allora, le streghe del titolo? Al di là delle suggestioni formali, come la divisione del film in capitoli che ricordano un libro di incantesimi, la sovrapposizione della figura della strega a quella di una madre che soffre di un disturbo psichico non permette, da sola, di rivendicare l’uso del termine con un’accezione positiva. Questa deriva invece dall’accettazione della malattia stessa, combattendo la paura dello stigma sociale e del giudizio altrui, attraverso un percorso di comprensione e cura, spesso coadiuvato dall’aiuto di altre donne, siano esse a loro volta madri o professioniste, o entrambe le cose: lo stesso supporto che tante donne non hanno ricevuto secoli fa e che tuttora spesso non ricevono, portando a conseguenze tragiche.