Con singolare freddezza gli anni Duemila hanno delineato i caratteri di una fantascienza decisamente disillusa, che esplora lo spazio profondo non tanto per trovare l’altro, il diverso, l’alieno, quanto per trovare noi. Perché ci siamo solo noi là fuori. Ce lo ha detto Alfonso Cuarón nel 2013 con Gravity, lo ha ribadito un anno dopo Christopher Nolan con Interstellar e nuovamente Ridley Scott nel 2015 con Sopravvissuto - The Martian. Siamo noi l’incontro ravvicinato del terzo tipo che tanto attendiamo. E figurativamente non credere che ci sia qualcun altro lassù fra le stelle significa non credere che ci sia nessuno lassù. Significa ammettere un’atea e cosmica solitudine. Una solitudine a cui la nostra fantascienza ha cercato di sopperire suggerendoci un intimismo indissolubilmente legato al – e segnato dal – progresso tecnologico.

Probabilmente il calcio d’inizio lo ha sferrato Andrew Stanton nel 2008 con WALL•E, nel quale un robottino netturbino era molto più umano degli umani mostrati, ma la prima vera grande intuizione l’ha avuta Spike Jonze nel 2013 con Lei, in cui un introverso Joaquin Phoenix si innamorava di un sistema operativo basato su un’intelligenza artificiale con la sensuale voce di Scarlett Johansson.

Da lì in poi la fantascienza, quella con qualcosa di concreto da dire, non ha mai tralasciato questo aspetto delle nostre vite, questo attaccamento morboso agli accessori e alle piattaforme, talmente già distopico di suo che l’unica esagerazione possibile è mostrare la macchina come una condizione molto più desiderabile della nostra. E quindi se James Cameron già nel 2009 sosteneva che bramiamo molto più vestire i panni di un avatar piuttosto che i nostri, nel 2015 Neill Blomkamp alza la posta in gioco con Humandroid, dicendo che persino l’hardware è meglio di noi e quello stesso anno Alex Garland lo segue a ruota con Ex Machina. Insomma, se l’ombra di HAL 9000 ci ha tenuto compagnia fino alla fine degli anni Novanta, con i Duemila la rage against the machine ha ormai fatto il suo tempo.

In tutto ciò, Blade Runner cosa ha da dire? Qual è il suo commento 35 anni dopo aver immaginato un futuro al quale tutti i film sopracitati sono debitori? Un futuro il cui impatto sulla cultura pop è talmente imponente che molte persone conoscono il film più per le continue citazioni che per una sua effettiva visione. Perché sì, se persino Bill Lawrence nel suo Scrubs ha trovato il modo di mettere in bocca al dr. Perry Cox una parafrasi del celebre monologo di Roy Batty, sotto la pioggia per giunta, allora Blade Runner è davvero di una potenza incredibile.

Questo Denis Villeneuve lo sa bene. Così, invece di proporre qualcosa di nuovo ma uguale – magari strizzando di continuo l’occhio ai fan per non farli arrabbiare, come farebbero tanti altri registi senza un briciolo di coraggio –, utilizza il capolavoro di Scott del 1982 come fosse una mappa su cui tracciare un sentiero sinceramente diverso. Un sentiero che intercetta il mood della fantascienza contemporanea, se ne impossessa caldamente pur mantenendo atmosfere che guardano ad Andrej Tarkovskij e che ha davvero la coerenza narrativa e immaginifica per accadere 30 anni dopo gli eventi del primo film. Ecco perché Blade Runner 2049 è un sequel decisamente riuscito.

Se nell’incontro inedito tra noir e cyberpunk di Scott avevamo una storia di ribellione ad opera di schiavi che bramano gli stessi diritti dei loro padroni/creatori, una ricerca di quell’identità che la parte di mondo destinata ad obbedire vede come punto d’arrivo guardando quella nata per comandare, qui con Villeneuve (dove per altro c’è tutto ciò) non è più solo una questione di lotta di classe. Non viene solo suggerito che i replicanti possono essere più umani di noi, ma questo thriller dalla detection piena di sorprese ce lo dice apertamente, riservando a Ryan Gosling una parabola che ne esalta le virtù senza lasciare dubbi sulla sua natura, come invece accadeva per Harrison Ford.

E se da una parte questa mancanza di ambiguità può essere additata come difetto, dall’altra va considerato che Blade Runner 2049 non è un prodotto figlio del nostro tempo solo perché abbraccia il concetto di umanizzazione dell’artificio meccanico, ma perché del blockbuster contemporaneo possiede tutti i crismi: troppe informazioni, colpi di scena ed è di fatto l’enorme episodio pilota per l’avvio di un nuovo franchise. Per cui, sì, ci sono personaggi che vengono a malapena presentati e che viene lasciato intendere giocheranno un ruolo fondamentale nei prossimi capitoli. Uno su tutti, com’è ormai consuetudine: il vero villain/mastro burattinaio/mostro finale, che qui ha la faccia di un Jared Leto sempre più insopportabile da quando ha vinto l’Oscar per Dallas Buyers Club.

In molti, comprensibilmente, storceranno il naso dinnanzi a questo aspetto. Altri, come il sottoscritto, diranno che questo è un vero risveglio della forza. Altroché J. J. Abrams.