Fuorilegge che poi tanto criminali non sono, sceriffi un po’ suonati, vedette illuminate dalle luci di una misera ribalta e col sogno della famiglia, padroni di miniere poco furbi, indiani ovviamente infami. Joseph Kane non è John Ford e I rapinatori fa tutto ciò che deve per assolvere alla sacra funzione di intrattenere il pubblico popolare, benché non manchino suggestioni di un certo interesse e forse addirittura più chiare a settant’anni di distanza dalla sua apparizione.
I rapinatori è uno dei trentasei film prodotti o distribuiti dalla bulimica Republic Pictures nel 1948. È chiaramente un b-movie, ma è curioso osservare che la sua uscita fu incastonata tra l’avventuroso Il sortilegio delle Amazzoni e il Macbeth di Orson Welles (cosa che può sembrare incredibile solo a chi non conosce le singolari relazioni tra l’artista e i suoi occasionali finanziatori). Questa terna stravagante ci interessa perché mette in luce l’ambizione di una casa di produzione che, dopo una marea di western spesso uguali a se stessi, giunse al blockbuster Iwo Jima, deserto di fuoco e, più tardi, ai capolavori Un uomo tranquillo e Johnny Guitar.
Prima di liquidare I rapinatori quale prodotto di routine, occorre dunque, grazie al senno di poi, setacciare le immagini di Kane per individuare presunti embrioni di quel percorso che permise alla piccola Republic di arruolare proprio Ford. Regista quanto mai aziendalista, Kane si misurò per la prima volta col colore, lavorando assieme al direttore della fotografia, l’ultraprolifico Jack A. Marta, col sistema del Trucolor, alternativa economica al Technicolor. In questo senso il film assume addirittura una dimensione sperimentale per lo Studio in quanto esperienza nuova ed imprevedibile, soprattutto in virtù di un risultato instabile e non particolarmente indovinato, alternando interni molto nitidi ad esterni dove la rozzezza cromatica esalta la piattezza dei fondali.
Tuttavia dobbiamo sempre tenere presente la natura produttiva de I rapinatori, in cui perfino i protagonisti sembrano le versioni economiche di divi più quotati: Lorna Gray, star femminile dello Studio, ricorda la fiammeggiante Maureen O’Hara, l’ungherese Ilona Massey sembra un ricalco di Jean Arthur e Forrest Tucker di Alan Ladd, mentre Rod Cameron quasi annuncia il futuro James Garner. Eppure I rapinatori colpisce oggi non solo per l’insopportabile – sebbene tipico per l’epoca – trattamento riservato ai nativi, specialmente dentro uno schema manicheo in cui i buoni sono di rara ottusità, ma per le spregevoli ed attualissime logiche di branco che si attivano nella parte finale: vittime contro vittime, scelta di un facile capro espiatorio, i cittadini che si fanno giustizia privata contro quella esercitata dalle istituzioni i cui ragionamenti appaiono loro incomprensibili.