Esterno notte di Marco Bellocchio si apre con una scena che è una menzogna ma allo stesso tempo anche una speranza. Aldo Moro è libero, provato dal lungo periodo di prigionia, ma vivo e cosciente. I suoi occhi trasudano dolore mentre scrutano i volti dei colleghi di partito riuniti al suo capezzale, accompagnati dalla voce fuori campo tramite cui il leader DC annuncia la fine della sua attività politica. È una menzogna agli occhi di chi, oltre quarant'anni dopo, conosce il macabro epilogo della vicenda. È però anche una speranza per lo spettatore che assiste al primo episodio della serie, il quale si sente autorizzato a sospendere l'incredulità e credere quindi che la forza del racconto possa sovvertire la Storia e concedere una conclusione diversa alla tragedia di Moro.

È sulla base di questa speranza che Esterno notte costruisce il traino narrativo in grado di sorreggere i sei episodi che lo compongono, evidenziando una volta di più la lucidità artistica di Bellocchio e la capacità da parte dell’autore emiliano di adattare il proprio linguaggio agli standard della contemporaneità audiovisiva a quasi sessant’anni dal suo esordio. Perché Esterno notte è una serie, con buona pace di chi si ostina a concepirlo come un lungometraggio diviso in due parti, come se ciò servisse ad accrescerne valore e prestigio. Nonostante la distribuzione in sala, Bellocchio costruisce questa sua opera senza nasconderne la natura, ma anzi mostrando un profondo rispetto per le regole della struttura seriale. Ecco dunque che la menzogna storica e la speranza narrativa di cui sopra si scoprono elemento fondamentale per catturare l’attenzione di un pubblico che dovrà concedere oltre cinque ore del proprio tempo per seguire la ricostruzione finzionale di un avvenimento universalmente noto.

Ma se da un lato l’autore de I pugni in tasca mostra un lato inedito e adotta alcuni espedienti tipici della serialità televisiva, dall’altro ribadisce lo spirito fervente che ha caratterizzato la sua produzione sin dagli esordi. Ben lungi dall’essersi placato, l’animo incendiario di Bellocchio non stempera e trova semmai nuove vie formali attraverso cui esprimersi. Formali, appunto, perché il tema torna invece ad essere quello già scandagliato nel 2001 con il film di cui Esterno notte si propone di essere un’espansione, un ulteriore e più approfondito sguardo. E proprio il titolo è indicativo circa il focus adottato: non siamo più tra le mura dell’appartamento-prigione in cui Aldo Moro ha trascorso gli ultimi mesi di vita, ma chiamati a condividere il costante sentimento di irrequietezza di chi, tra il 16 marzo e il 9 maggio del 1978, ha creduto e sperato nella sua liberazione.

Dopo l’episodio introduttivo in cui vengono portati in scena i tormenti che affliggevano l’ex presidente alla vigilia del Compromesso Storico, sono le figure di Francesco Cossiga, papa Paolo VI, Adriana Faranda ed Eleonora Chiavarelli a sostenere l’occhio indagatore della macchina da presa e colmare lo spazio del quadro con il carico delle rispettive tribolazioni legate al sequestro. Sono loro a fornire uno scorcio “esterno” sulla tragedia di Moro, e nelle loro mani lo spettatore ripone la speranza accarezzata nell’incipit del primo episodio. Ma se la l’obiettivo della liberazione costituisce il comburente drammaturgico che muove i personaggi, ciò che realmente emerge dalle loro azioni è un generale senso di spaesamento e crisi identitaria, sintomatico dell’intera epoca storica che Bellocchio sente ancora l’urgenza di raccontare.

La dilatazione temporale concessa dal formato seriale consente non solo di espandere il numero di punti di vista, ma anche di dedicare a ciascuno di essi un’adeguata cura introspettiva, al fine di renderli delle sottili e differenti sfumature di un unico e angosciante disegno raffigurante l’Italia di fine anni Settanta. Una ricostruzione di avvenimenti che non ambisce alla restituzione di una chiarezza cronachistica, ma appare quasi come un rito in cui l’arte diventa strumento per esorcizzare i fantasmi che infestano un periodo storico illeggibile e ancora tremendamente irrisolto.

Bellocchio scava nella realtà, ma è l’onirismo a regnare al di sopra di ogni elemento, divenendo espressione simbolica del sottotesto (emblematica in questo senso la sequenza della “passione” di Moro, sotto gli sguardi apatici dei massimi esponenti del suo partio) e parte fondamentale della psicologia dei personaggi. In un contesto in cui pare impossibile attuare una scansione logica dei fatti, la finzione estrema del sogno annulla la propria distanza con il reale e si fonde con esso. Un processo, questo, che ammanta la serie di una cupezza che toglie il respiro, senza però soffocare l’umanità che Bellocchio desidera con ardore concedere alle figure che si fanno veicolo del racconto.

Doveroso, a tal proposito, un encomio all’intero cast dei protagonisti: attori di prim’ordine il cui valore non era certo in discussione, ma che viene qui ribadito in un risultato corale che ha del sublime. L’importanza del volto umano, e della miriade di emozioni che possono coesistere in esso, è in questo progetto paragonabile a quello della struttura drammaturgica per la pregnanza di significati espressi. Basterebbero i primi piani di Fabrizio Gifuni (quasi posseduto da Aldo Moro, tale è la credibilità della sua interpretazione) durante la già iconica scena della confessione, per delineare nella loro interezza i conflitti, le afflizioni, la rabbia e la rassegnazione che regolano il tessuto emotivo dell’intera serie.

Ed è proprio l’immagine di quel volto disperato a rimanere impressa per un tempo che supera abbondantemente quello speso nella visione. Probabilmente la stessa immagine che da tempo perseguita lo stesso Bellocchio, di cui non riesce a liberarsi, celata dalla storia e quindi concretizzabile solo nella finzione. L’abbraccio geometrico di uno schermo (cinematografico o televisivo che sia) diviene quindi l’unico luogo in cui poter addomesticare questo incubo proveniente dal passato, l’unica possibilità per definirlo, circoscriverlo e consentire all’autore di trovare una parvenza di pace.