Rossi schizzi punteggiano l'isola britannica. Un aereo della Luftwaffe sorvola il Canale della Manica a una velocità tale che l'occhio della macchina da presa trasforma le onde del mare in eleganti figure geometriche. Una bomba viene rilasciata, immagine perturbante che puntualmente ritorna come un rimosso. Dall'alto planiamo su una Londra in fiamme: una pompa dei vigili del fuoco pare animarsi, danzando come un serpente mitologico. La modernità e i suoi strumenti sembrano impazziti.

Nelle stazioni ferroviarie, famiglie si accalcano per salutare i figli, inviati lontano dalle zone devastate dai bombardamenti. Per radio, un'operaia intona una melodia per unire tutta la nazione in un unico sentimento di speranza. Se il cinema, del tutto assente nel film, sembra impotente nei momenti emergenziali, può almeno sforzarsi di colmare le distanze tra le aree di pericolo e quelle al sicuro. Così, ci addentriamo nelle metropolitane affollate di rifugiati, dormiamo sui binari, per un attimo ci affacciamo su una realtà che milioni di ucraini stanno vivendo oggi.

Ecco che la massa occidentale, illusa di essere al sicuro dopo la Belle Époque, ora appare completamente disorientata, colpita per la prima volta da una guerra che bussa alle loro porte, che sconquassa definitivamente le distanze. Il cinema ci riconnette a un'esistenza presente, svelandoci la paura palpabile di un episodio che potrebbe ripetersi. Le riprese-lampo di Steve McQueen sul blitz aereo tedesco raccolgono questa massa smarrita in un melodramma dal sapore classico, che coniuga una visione polifonica di realtà complesse a figure quasi letterarie e che attraverso un realismo pittorico ci riavvicina alla cruda quotidianità.

Nel cuore della calca, emerge un uomo della Storia: George, uno dei tanti bambini inviati in treno, il quale diserta il suo compito e, proprio come McQueen, ripercorre il cammino della modernità (la ferrovia) per mettere lo spettatore di fronte alle “belle parole” che si sforzano di semplificare una realtà complessa, occultando così miserie e ingiustizie del tempo presente. Come quello stesso “Spirito del Blitz” su cui si fondò parte della propaganda britannica del dopoguerra, per ricostruire un’identità nazionale ferita.

Tuttavia, quel tempo di apparente unità e solidarietà si rivela in realtà un’epoca di conflitto e divisione: dai soprusi sessisti del capo sulle operaie, ai tentativi di segregazione razziale nei rifugi multiculturali, fino alle manifestazioni più evidenti di discriminazione nei confronti dei neri, tra cui la misteriosa scomparsa del padre di George.

Sarà proprio in un museo sull'imperialismo britannico che George incontrerà un’ex guardia aerea nigeriana, Ife, che lo inviterà a confrontarsi con le ingiustizie storiche che han segnato il loro popolo. George stesso vivrà sulla sua pelle quei conflitti, costretto da una banda di mafiosetti a intrufolarsi tra le rovine, come un ratto, per depredare i tesori sepolti dai corpi senza vita. In risposta a questa viltà, McQueen fa rivivere le rovine del Café de Paris, dove germogliò il rhythm and blues e la cultura nera.

A differenza di Nolan, è evidente che a McQueen non interessano i dubbi amletici del soggetto. Il montaggio non emerge da una psiche frastagliata, ma da una realtà frammentata, intrisa di divisioni e conflitti, su cui è essenziale prendere posizione. Per questo, il film si popola di figure talvolta monodimensionali, quasi caricaturali, eccessivamente sentimentali, ma che, nel momento della catastrofe, non si fermeranno nel panico a ponderare il bene e il male; si muoveranno, invece, per il bene comune, compiendo un gesto liberatore.