In questi tempi di guerre occultate, genocidi negati e minacce totalitarie, un film come Amerikatsi di Michael A. Goorjian è certamente tempestivo per obbligarci ad una riflessione su questi temi, anche attraverso uno stile personale contraddistinto da un’ironia surreale e straniante che getta uno sguardo non convenzionale sul genocidio armeno e sul successivo processo di rimpatrio incoraggiato da Stalin.
L’onestà e il coinvolgimento emotivo del regista, che ha anche il ruolo di protagonista, oltre ad essere autore della sceneggiatura e del montaggio, si sentono in ogni fotogramma e culminano nella dedica finale al nonno come omaggio alle proprie radici armene. Per questo, vorremmo scrivere tutto il bene possibile di questo film, eppure qualcosa, ad un certo punto, si inceppa e Amerikatsi inizia a girare a vuoto, riproponendo buone intuizioni che, tuttavia, alla lunga, finiscono per diventare ripetitive e nuocere al ritmo e all’essenzialità a cui un’opera come questa dovrebbe tendere per evitare il pericolo del patetico.
Charlie Bakhchinyan (Goorjian) è solo un bambino quando nel 1915 l’Impero Ottomano inizia il genocidio della popolazione armena. Per salvarlo, la sua famiglia lo mette all’interno di un baule diretto negli Stati Uniti, paese di cui diventerà cittadino ma da dove, immediatamente dopo la Seconda Guerra Mondiale, deciderà di emigrare per ritornare in Armenia, intanto diventata parte dell’Unione Sovietica. Arrivato carico di aspettative per il futuro e di speranze di ritrovare le proprie radici, presto Charlie si deve, tuttavia, scontrare con le crudeli assurdità dello Stalinismo. Il regime lo incarcera per il sospetto di essere una spia americana, sostanziato dalla prova di indossare una cravatta e quindi di propagandare un decadente stile di vita occidentale e borghese.
La vita della prigione è fatta di privazioni e torture anche se Charlie trae forza e conforto dal guardare dall’angusta finestra della sua cella le scene di vita quotidiana dell’appartamento di fronte. Le vite, le feste, i litigi, le separazioni e le riconciliazioni, le aspirazioni frustrate per cui non si smette di lottare scorrono davanti a Charlie, soprannominato Chaplin dai secondini, proprio come su uno schermo. Da mero spettatore, tuttavia, Charlie diventa anche autore delle scene dell’appartamento di fronte, trovando un modo per interagire con i protagonisti di quel mondo che sembra irrimediabilmente separato da un muro e si rivela invece estremamente vicino.
Questo aspetto metaforico e meta-filmico è uno dei punti di interesse e di originalità del film, su cui però Amerikatsi finisce per fare eccessivo affidamento per far progredire il suo sviluppo narrativo e mantenere l’interesse degli spettatori. Col risultato di dilatare eccessivamente le parti in cui Charlie è spettatore e autore delle vite degli altri, tanto da farci quasi dimenticare la sua prigionia, che sembrava inizialmente l’elemento centrale della narrazione.
Certo, il film arriva a collegare le due diverse esistenze ma ci mette troppo e scivola lentamente verso un eccessivo sentimentalismo finale, complice anche una colonna sonora non troppo controllata. Il messaggio dell’inviolabilità della libertà e dell’emancipazione individuali e collettive arriva chiaro.
Tuttavia, una maggiore essenzialità narrativa e una maggiore leggerezza nella caratterizzazione dei personaggi, soprattutto quelli secondari decisamente troppo caricaturali nel loro passaggio da efferati carcerieri a improvvisi fans di “Charlie Chaplin”, avrebbero giovato alla coerenza e organicità del racconto.