Terzo lungometraggio per Gabriele Mainetti. Dopo l’origin story del supereroe romano e l’epopea bellica degli X-Men all’italiana, brusca inversione a U verso l’oriente con La città proibita. Il precedente titolo di lavorazione, Kung Fu all’amatriciana, ben riassumeva il tono del film: la classica storia di vendetta tipica del gongfu movie ambientata però tra le strade di Roma, dove basta un giro in Vespa sui sampietrini per innamorarsi. Tra combattimenti all’arma bianca, piatti tipici, Vacanze Romane e un pizzico di neon à la Wong Kar-wai siamo di fronte al film più riuscito del regista, seppure non privo delle solite leggerezze in fase di scrittura. Insomma, Mainetti 3 convince ma la sceneggiatura debole colpisce ancora.
Mei viaggia dalla Cina alla volta della Città Eterna per ritrovare la sorella. La sua ricerca la porterà a imbattersi in Marcello, un ragazzo sepolto nella cucina del ristorante di famiglia che da qualche tempo soffre l’assenza del padre, fuggito insieme a una prostituta cinese, appunto la sorella della protagonista. Nel tentativo di svelare il mistero dietro la scomparsa dei loro cari, i due si scontreranno con una buffa organizzazione criminale capitanata dal temibile Wang, a sua volta in lotta per il controllo del territorio con Annibale, piccolo malavitoso di quartiere, a un passo dall’estinzione.
Tendenzialmente quando si parla dei film del regista romano si ricorre alla discriminante “per il cinema italiano”, proprio perché pellicole di questo tipo sono rare, se non del tutto assenti tra le uscite annuali (e per ora non stiamo parlando di budget). Difatti non lo si può negare, la strada percorsa da Mainetti è desolata e una filmografia così votata a un intrattenimento cinetico che strizza l’occhio a Hollywood è un privilegio tutto suo, almeno nel circuito mainstream.
In questo caso ci sentiamo di dire però, che le sequenze d’azione de La città proibita sono sorprendenti in generale, cinema italiano o meno, e il lavoro svolto dall’attrice, coordinato dagli stunt e diretto dal regista va encomiato. Nulla di eccessivamente sconvolgente o innovativo rispetto a quanto già visto in giro per il mondo, ma la chiarezza e la creatività nel mettere in scena i combattimenti non sono mai da dare per scontato.
D’altro canto, non siamo di fronte a un gongfu movie e la verità è che l’impianto drammatico e l’attenzione al tessuto sociale romano sono molto più rilevanti di quanto invece non lo sia la componente action, che a voler essere cattivi e sminuire con un semplice dato numerico, si riduce a 4 scene. Volendo utilizzare una metafora culinaria, è cucina fusion quella di Mainetti (qualcuno direbbe postmoderna), il problema è che se gli ingredienti non si amalgamano e i sapori continuano a essere così nettamente distinguibili, forse c’è qualcosa che non sta funzionando.
Man mano che si passa da una situazione caricaturale e macchiettistica a un contesto quantomeno verosimile, le forzature che si accetterebbero in un film di calci volanti iniziano a emergere, ci si pone domande che altrimenti non faremmo e che non necessariamente troveranno risposta. Come fa Mei a sopportare tutte quelle ferite? Perché se Annibale è così tanto irrispettoso e una spina nel fianco per i cinesi, è ancora vivo? La scelta della sorella di fuggire a Roma era davvero l’unico modo per ottenere ciò che voleva? E i genitori cosa ne pensano? Cosa aggiunge il rapporto col figlio al personaggio di Wang? È mai possibile che in un contesto criminale come quello romano, Annibale sia l’unico ad avere una pistola? E così via.
Proprio l’attenzione al contesto e la descrizione di una Roma “fusion” sono poi gli elementi più interessanti de La città proibita, che insieme al personaggio di Giallini costituiscono il punto di forza della pellicola. Il regista ha la capacità di raccontare la città più inflazionata e rappresentata del cinema italiano in maniera inaspettatamente interessante e questo gli va riconosciuto. Purtroppo però, il tutto risulta poco organico nel mescolarsi con le dinamiche tipiche del cinema d’arti marziali, andando a minare concettualmente il senso di unione, di fusione appunto, che è alla base del film.
Prima di concludere, vorremmo spendere poi due parole sull’operazione produttiva in generale. Rispetto a Freaks Out, infatti, il budget di questo progetto è aumentato arrivando a sfiorare i 17 milioni (come riportato dal database della DGCA) e andando a inserirsi in quella lista di mega produzioni italiane recenti di cui fanno parte titoli quali L’Abbaglio, Finalmente l’alba o Napoli - New York (per citarne alcuni).
La domanda che più sorge spontanea in questi casi è se, visti i risultati, valga la pena investire su prodotti così costosi. Sappiamo che il successo di un film in Italia dipende solo in parte dagli incassi, ma l’impressione resta quella che si spendano svariati milioni per film che vengono visti pochissimo. Il caso de La città proibita è poi eclatante e seppure sia ancora presto per parlare, questa volta il genere di riferimento si presta decisamente di più all’interesse del grande pubblico, per cui ci si chiede come sia possibile che un prodotto di questo tipo, con così tanto potenziale, sia stato pubblicizzato così poco.
Aldilà delle nostre maliziose speculazioni la speranza è che La città proibita, con tutti i suoi difetti, arrivi a più persone possibile ma non possiamo che continuare a essere scettici dinanzi alla riuscita di operazioni del genere e chiederci se, ancora, visti i risultati, si continuerà su questa strada, oppure produzioni così ambiziose saranno sempre più rare “per il cinema italiano”.