New San Francisco, anno 2073. Dittatori senza scrupoli e violenti tecnocrati controllano un pianeta devastato dalla crisi climatica e dal furor liberticida che punisce ogni dissenso, movimenti clandestini sono inghiottiti dalle ombre dei tunnel sotterranei. La voce narrante di Ghost (Samantha Morton), ultima dei resistenti, è l’unica guida per lo spettatore, un revenant che torna indietro nel tempo, agli anni Novanta e ai primi anni Duemila, grazie ai filmati d’archivio che preludono al peggiore dei mondi possibili.
2073 è un’analisi spietata della fine del consorzio umano (che rilegge Orwell, Bradbury e molte delle distopie contemporanee) e insieme un monito inesorabile per un immediato, oscuro futuro prossimo. Tra documentario e fiction, l’opera di Kapadia racconta la deriva dell’autoritarismo globalista che sta gradualmente erodendo le libertà civili attraverso il collasso democratico e una tecnocrazia sempre più pervasiva.
Partendo da La Jetéè, il regista sostituisce alle foto di Chris Marker i filmati d’archivio che utilizza come testimonianze per denunciare i neofascismi e celebrare i giornalisti antisistema come Maria Ressa, reporter investigativa schierata contro Duterte, Rana Ayyub, voce critica nei confronti di Modi, o Carole Cadwalladr, che ha svelato lo scandalo di Cambridge Analytica. Il futuro, a trentasette anni di distanza dall’ Evento (un cataclisma ecologico, economico e sociale), è un grande abisso d’acciaio in cui i sopravvissuti cercano di preservare i ricordi e di sopravvivere alla repressione, nascosti nelle gallerie sotterranee.
L’idea di lanciare un avvertimento ad un’umanità impazzita, che passa attraverso testimonianze visive – come abbiamo visto anche in molta fantascienza, dal giocoso Explorers all’imponente The Abyss - nonostante appaia poco originale, rafforza la tesi secondo la quale ormai non c’è più tempo per la speranza, ma solo per assistere ad una normalizzazione delle dinamiche di ghettizzazione che, a partire dalla Brexit, hanno coinvolto ogni ambito della comunità globale.
In un mondo in cui “anche Dio, ormai è cieco” e non esistono più deus ex machina che riescano a modificare il corso degli eventi, la difesa della memoria (come nel romanzo I who have never known men, di Jacqueline Harpman) è la condizione necessaria affinché ci sia sempre una Storia che ci sopravviva, che ci plasmi e che rimanga un serbatoio indelebile di costruzione identitaria, sociale, cooperativa. La voce critica di Kapadia si riversa così contro il sistema totalitario che annichilisce l’individuo e uniforma, che sorveglia e punisce.
2073 va al di là dell’analisi focaultiana, concepisce una camera (oscura) con vista (su un passato recente in cui si susseguono figure antidemocratiche come Milei, Orban, Bannon, Farage, oligarchi transnazionali e fautori di una pericolosa tecnocrazia) che annuncia un “mondo nuovo”, in cui vige il controllo delle istituzioni, la creazione strumentale del nemico e l’offuscarsi di ogni libertà democratica.