Molto atteso dagli appassionati e dagli studiosi, il volume Accattone. L’esordio di Pier Paolo Pasolini raccontato dai documenti (presentato oggi presso la Libreria Coop-Ambasciatori di Bologna), è una vera miniera di materiali e approfondimenti. Intorno al ‘corpo’ del film – scrivono i curatori Roberto Chiesi e Luciano De Giusti – esiste sempre un altro corpo di testi preparatori, appunti, interviste e di documenti che ne illuminano la genesi e i diversi processi, dall’ideazione alla realizzazione al montaggio definitivo. Il volume, dedicato al ‘laboratorio’ di Accattone, comprende fra l’altro il trattamento e appunti inediti dell’autore, una selezione delle interviste che rilasciò durante e dopo la lavorazione, le riproduzioni di alcuni disegni preparatori, la ricostruzione delle complesse vicende censorie e delle reazioni, anche accese, che suscitarono le prime proiezioni, i testi sul film di scrittori quali Alberto Moravia e Carlo Levi, le testimonianze dei collaboratori e alcune immagini dei sopralluoghi e del set del film. Qui a seguire, invece, proponiamo in anteprima alcune testimonianze del sempre loquace Pasolini, che tornò a più riprese sul film, prima ancora di realizzarlo.

[…] Ho già girato alcuni provini. Ho affrontato la macchina da presa ed essa – ci spiega Pier Paolo Pasolini – mi ha dato la stessa ebbrezza della scoperta di un linguaggio che provavo quando mi nascevano i primi versi negli anni della giovinezza. Un linguaggio da inventare entusiasma; dà una nuova carica; ricostituisce le energie consumate. La suggestione della regia cinematografica è per me questa…

E ha già definito il tema del suo film?

L’ho già quasi interamente scritto e studiato nei suoi personaggi. È la storia di un ‘magnaccia’ a Roma. La donna che egli sfrutta è rinchiusa in prigione ed allora egli mette gli occhi su un’altra donna: ma se ne innamora e non ha più il coraggio di farne oggetto di mercimonio…

L’amore diviene dunque, in una situazione così scabrosa, ragione di riscatto?

Io non ho mai negato che le passioni individuali possano essere ragione di riscatto dell’uomo. In Una vita violenta, invece, il protagonista trovava le ragioni della sua redenzione nelle sollecitazioni di un ambiente politico-sociale. Nel sottoproletariato tutte le strade sono buone per arrivare al riscatto.

In qual modo […] lei pensa di inserirsi nell’attuale orizzonte cinematografico? Ha scelto una direzione fra quelle esistenti o pensa di scoprire una propria direzione?

I miei modelli sono Chaplin, Dreyer, Mizoguchi, cioè i registi dell’essenzialità. Non penso neppure lontanamente di rifarmi a registi espertissimi e formalmente elaborati, come ad esempio Rossellini o Fellini. Me ne mancherebbero i mezzi espressivi. Ricercherò, al contrario, un linguaggio estremamente semplice e lineare, nel quale la mia inesperienza tecnica possa risolversi positivamente. Nei provini già girati, sia pure in una fase di studio preliminare del film, ho potuto anche trovare la conferma di questa mia tendenza spontanea ad un linguaggio essenziale.

Da Orsa Minore, Cerca nuove “esperienze” l’inquieto Pasolini, “Telesera”, 7-8 ottobre 1960.

 

[…] Farò un film senza complicati movimenti di macchina, sarà quasi sempre ferma. Farò solo delle carrellate. Niente atmosfera, niente contorno. Al centro saranno solo i personaggi. Continuamente primi piani e poi campi lunghi. Sul fondo il gruppetto degli attori: e poi di colpo addosso con la macchina sui primi piani. Sulle battute del dialogo. Rapidissimo: da un viso all’altro, da una battuta all’altra. Col dialogo sarò inflessibile: non cambierò una virgola. Entro questi termini sono certo di saper far recitare i miei attori benché inesperti loro e io. Niente doppiaggio, niente rumori fuori quinta: sarà tutto registrato sul posto. Del resto non userò neppure delle gran luci. Voglio una fotografia semplice, un po’ sporca: poi farò stampare il film non già sul negativo ma sul positivo, in modo da ottenere degli effetti raffinati. Sporco-raffinati. […]

Da Giulio Mazzocchi, Pasolini regista, “Il Punto”, 22 ottobre 1960.

 

Ci avviciniamo, durante una pausa della lavorazione, a Pier Paolo Pasolini, e gli chiediamo perché si è deciso a trasformarsi da sceneggiatore in regista. Insoddisfazione per i film realizzati sulla scorta dei suoi testi? Desiderio di coerenza nella rappresentazione di un mondo che gli è caro? Pasolini ci risponde con una battuta abbastanza significativa, nonostante il tono apparentemente scherzoso. “Rispetto ai film tratti da mie sceneggiature, in questo non ci sarà un solo movimento di “carrello gru’”. Insistiamo ancora: “Lei, che è uno scrittore, quali problemi ha dovuto affrontare, concependo una storia per immagini cinematografiche?”. “Molti” replica Pasolini, “ma uno soprattutto: mi sono reso conto che nel cinema la metafora non è possibile”. Moravia interviene con piglio polemico nella conversazione e, scrollando le spalle, osserva: “Questa è la riprova che il cinema, almeno nei confronti della letteratura, è un’arte minore”. Pasolini accenna un gesto di dissenso: si rifiuta di portare alle estreme conseguenze le sue riserve. “Vede, aggiunge, io posso scrivere in un racconto: ‘quella donna era un topolino’: il regista però è costretto a presentare sullo schermo le cose come sono”. “I registi del muto”, ricordiamo a Pasolini, “hanno largamente sperimentato l’uso della metafora. Murnau, Pudovkin ed Ejzenštejn hanno ottenuto risultati sorprendenti in tal senso”. Pasolini non è convinto della nostra obiezione e ci ribatte: “Ma Ejzenštejn è caduto nel barocchismo e nel simbolismo. Io credo che il compito di un regista, sotto questo profilo, sia abbastanza arduo; bisogna, a mio parere, creare un linguaggio il quale suggerisca mentalmente la metafora allo spettatore”.

[…] “Forse” precisa Pasolini, “non sarà nemmeno un film bello, non lo so; l’ho immaginato come un film angoloso, fuori delle regole, con la macchina da presa costantemente puntata sulle facce dei protagonisti. Sarà comunque un film sincero”.

Da Mino Argentieri, Nella periferia romana nasce il film di Pasolini, “l’Unità”, 7 aprile 1961.

 

Come mai lei che ha realizzato le sue idee, la sua visione del mondo, attraverso varie forme della letteratura, sente il bisogno di esprimersi attraverso il cinema?

L’esperienza cinematografica e quella letteraria non sono antitetiche. Direi, anzi, che esse sono forme analoghe. Il desiderio di esprimermi attraverso il cinema rientra nel mio bisogno di adottare una tecnica nuova, una tecnica che rinnovi. Significa anche desiderio di uscire dall’ossessivo.

[…] Pensa di poter esprimere attraverso il cinema qualcosa di più e di diverso da quanto già espresso attraverso le forme letterarie?

No, non lo credo. Io credo che soltanto con la poesia si possono raggiungere infinite variazioni, il massimo di vibratilità. Cinema e poesia sono due forme completamente diverse.

Forse non le è estranea l’ambizione di raggiungere, attraverso il cinema, un pubblico più vasto?

La mia preoccupazione non è questa. Il fatto di riuscire a raggiungere un pubblico più vasto non pesa su ciò che io voglio fare. Anche quando scrivevo Una vita violenta non pensavo a questo. Non rientra nelle mie ambizioni.

A ogni modo lei pensa di esplicare una certa azione sulla società. Di che tipo? Un’azione di carattere politico-sociale? Oppure l’espressione dell’angoscia come bisogno di comunicazione?

Ritengo che il massimo dovere di uno scrittore sia quello di comunicare nel modo più immediato, senza mai giungere al compromesso. Uno scrittore segue l’autenticità e la qualità. Oltre che modificare la società, nella mia opera, io tengo presente la poetica.

A quanto mi risulta, il protagonista del suo film, come già Tommasino in Una vita violenta, attraversa una crisi, arriva a una forma di presa di coscienza. Qual è il significato che lei ha voluto dare alla ‘crisi’ di Tommasino? Lo considera un necessario momento di maturazione psichica e sociale, oppure – con l’adesione di Tommasino al partito comunista – un punto di arrivo della nostra società?

La maturazione e la presa di coscienza di Tommasino rappresentano sia un necessario momento di maturazione psichica e sociale, sia un punto di arrivo della nostra società. Tutte e due le cose in maniera plastica, vivente. Questo mio personaggio è stato avvicinato all’Innominato, ossia alla conversione di un uomo. Ma in un momento storico e razionale non avvengono conversioni. Avvengono prese di coscienza razionali. Niente di magico. Infatti Tommasino giunge a un ‘momento’ che dà alla sua vita una svolta, trasformandolo. Ma egli ricadrà.

In che cosa si differenzia allora la presa di coscienza di Accattone da quella di Tommasino?

Tommasino e Accattone sono due casi di esistenza sottoproletaria tipica degli italiani da Roma in giù. Ma due casi molto diversi, e quindi con spinte diverse. Una vita violenta ha un carattere politico sociale. Accattone è molto più indietro di Tommasino. Il suo destino molto più tragico.

Vuole precisarmi meglio in che cosa consiste la crisi di Accattone, qual è la natura di questo personaggio, le spinte che lo muovono?

Nel protagonista del mio film non si può parlare di vera e propria crisi. Accattone vive alla giornata, senza lavoro, senza che nella sua esistenza vi sia un qualunque orientamento morale, mantenuto da una prostituta. Il giorno in cui egli si innamora e sente che non può spingere la sua donna verso la prostituzione, si determina una crisi che è di natura istintiva, sensuale, sensibile. In Accattone vi è una misera luce di coscienza che arriva con la morte. La morte rappresenta il massimo punto di arrivo in quanto il personaggio non avrebbe né la forza né i mezzi, data la sua condizione sociale tanto depressa, di redimersi completamente.

Come lei ha detto, la crisi di Accattone è di natura istintiva, sensuale, sensibile; la sua motivazione è cioè di carattere eminentemente soggettivo: affettivo-emotiva. Come pensa che ciò sia conciliabile con la necessità attuale di una oggettività della narrativa, di cui lei è assertore?

L’importante è che l’autore sia oggettivo. Come uno scienziato che si mantiene oggettivo qualunque cosa egli studi. L’animo di Accattone è primordiale, inesprimibile. Va guardato con oggettività. L’importante è che io sappia inquadrare la sua anima in una società di cui essa è il prodotto. Accattone di se stesso non sa niente, ha una coscienza predace. Io lo conosco e cerco obiettivamente di presentare la sua coscienza.

La simpatia che lei dimostra per la creatività istintiva, la vitalità del sottoproletariato, non è in contrasto con la presa di coscienza che pure lei prospetta come una risoluzione possibile?

La vitalità incontaminata che c’è nel sottoproletariato ha la capacità di superare il conformismo. Se io parlo di problemi vitali urgenti a un operaio, l’operaio capisce subito perché essendo egli più libero ha la capacità di una presa di coscienza più moderna.

Al filone del cinema e della letteratura del cosiddetto ‘sottoproletariato’ si è negato di recente, da un punto di vista politico, un significato positivo e progressivo; da un punto di vista culturale, si è aggiudicata l’etichetta di decadentismo. Qual è, a suo giudizio, nel quadro della nostra cultura, la funzione di tale cinema e tale letteratura?

Scegliere storie di sottoproletariato in sé non ha significato, dipende dallo spirito ideologico che le informa. L’altra faccia di una storia sottoproletaria, è che sia decadente. Esiste un rapporto tra un tentativo di arte oggettiva sociale e decadentismo. Perché la maggior parte degli artisti è di formazione culturale decadente. Non si può prescindere da Proust, da Laforet. Ma il fatto che restino elementi decadentistici non significa niente. Il nostro è un periodo di transizione. L’importante è l’opera, le direzioni che questa opera prevede; fondamentale è la spinta progressiva che essa contiene.

Da Daisy Martini, L’Accattone di Pier Paolo Pasolini, “Cinema nuovo”, n. 150, marzo – aprile 1961.

 

Proprio ieri sono andato a scegliere il posto dove girare le ultime inquadrature di Accattone. Fuori Roma, verso le montagne e le vallate del Lazio meridionale, e, precisamente, tra Subiaco e Olevano: ma era soprattutto su Olevano che puntavo, come luogo dipinto da Corot. Ricordavo le sue montagne leggere e sfumate, campite come tanti riquadri di sublime, aerea garza contro un cielo del loro stesso colore. Dovevo scegliere una vallata che, in un sogno di Accattone – verso la fine del film, poco prima della sua morte – raffigurasse un rozzo e corposo paradiso. Lei dirà: ma questo è il colmo! Non soltanto dopo la “conversione” di Tommasino, P. P. P. ci dà un film in cui conversioni (dallo stato sottoproletario allo stato proletario e alla lotta di classe) non ce n’è, ma addirittura un film in cui si avvalla “l’integrazione figurale” dello stato tradizionale e cattolico per eccellenza. E lei non avrebbe torto a scandalizzarsi se le cose stessero proprio così.

In realtà la “crisi” di Accattone è una crisi totalmente individuale: si compie non solo nell’ambito della sua irriflessa e inconscia personalità, ma nell’ambito della sua irriflessa e inconscia condizione sociale. Se per caso io non avessi avuto l’idea di parlare di questa crisi, essa sarebbe passata ignota a sé e agli altri come un fenomeno meteorologico in qualche zona desertica, come una frana nel cuore di qualche vulcano.

Ma, visto che in tal caso (cioè la mia presenza dentro quell’anima ignota) si è dato, il fatto avrà pure qualche senso, sfuggirà pure in qualche modo alla sua casualità. È proprio necessario, anzitutto, che l’analisi di un male finisca con una terapia “pratica”? Io non sono un politico o un sociologo: ma uno scrittore. La terapia di uno scrittore differisce da quella di un politico o di un sociologo, in quanto essa fa intima parte di quell’analisi, è inscindibile da essa, ne è un elemento integrante. In altre parole la cura e la speranza implicite nell’analisi sociale di uno scrittore sono la sua “espressione”: quanto più questa è pertinente e poetica, tanto meno ha bisogno di integrazioni didattiche, didascaliche, edificanti, ecc.

Con questo, badi, non voglio affatto negare che si possa prospettare anche qual è in pratica la via della lotta e della speranza: è quello che ho fatto in Una vita violenta. Ma la storia di Tommaso avveniva subito dopo i fatti di Ungheria, nel momento cioè in cui uno stato terribile di crisi annunciava albeggianti e luminose soluzioni: il rovesciamento dell’epoca staliniana, un rinnovamento interno e fecondo dei Partiti comunisti. Era un’epoca della mia vita in cui io, come scrittore, non potevo non tenere sempre costantemente presente quella prospettiva di cui parlavo e quindi questa non poteva non far parte immanente e continua della mia ispirazione.

La storia di Accattone invece è più breve: ha la durata di una estate, che è quella del governo Tambroni. Tutto, nella mia nazione, in quei mesi, pareva riprecipitato nelle sue eterne costanti di grigiore, di superstizione, di servilismo e di inutile vitalità.

È in questo momento che io mi sono affacciato a guardare quello che succedeva dentro l’anima di un sottoproletario della periferia romana (insisto a dire che non si tratta di una eccezione ma di un caso tipico di almeno metà Italia): e vi ho riconosciuto tutti gli antichi mali (e tutto l’antico, innocente bene della pura vita). Non potevo che constatare: la sua miseria materiale e morale, la sua feroce e inutile ironia, la sua ansia sbandata e ossessa, la sua pigrizia sprezzante, la sua sensualità senza ideali, e, insieme a tutto questo, il suo atavico, superstizioso cattolicesimo di pagano. Perciò egli sogna di morire e di andare in paradiso. Perciò soltanto la morte può “fissare” un suo pallido e confuso atto di redenzione. Non c’è altra soluzione intorno a lui, come intorno a un enorme numero di persone simili a lui. È molto, ma molto più raro, un caso come quello di Tommasino che un caso come quello di Accattone. Con Tommasino ho dato un dramma, con Accattone una tragedia: una tragedia senza speranza, perché mi auguro che pochi saranno gli spettatori che vedranno un significato di speranza nel segno della croce con cui il film si conclude.

Pier Paolo Pasolini, Accattone e Tommasino, “Vie nuove”, n. 26, 1 luglio 1961 [In risposta a un lettore che gli scrive una lunga lettera dopo aver letto “Cinema nuovo”, n. 150, marzo-aprile 1961: L’accattone di Pier Paolo Pasolini, intervista di Daisy Martini], ora in Id., I dialoghi, a cura di Giovanni Falaschi, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 146-148, poi, con il titolo Senso di un personaggio: il paradiso di Accattone, in Id., Accattone, FM, Roma 1961.