"Il mio film è un invito agli artisti a confrontarsi più profondamente con le sfide del mondo reale", dichiara il regista e sceneggiatore iranaiano Farhad Delaram, già vincitore del dell'Orso di Cristallo a Berlino con il corto Tattoo, a proposito del suo lungometraggio d'esordio Achilles (2023). Certamente le sue parole evocano il lungo viaggio del protagonista del film, Farid (Mirsaeed Molavian) soprannominato Achilles, che ha lasciato la carriera artistica per diventare un assistente ortopedico e soffrire insieme a chi è confinato nell'ospedale di Teheran dove lavora.

"Qualunque cosa tu faccia, rimani sempre un servo del regime", sostiene l'uomo in due toccanti dialoghi con la ex-moglie e con il padre, che non si spiegano la sua rinuncia alla carriera che ha sempre voluto. L'incontro casuale con Hadieh, una paziente di un reparto psichiatrico ben nascosto all'interno dell'ospedale, inizia a scuoterlo dal suo profondo senso di impotenza.

Come ne Il grido (1957) di Antonioni, citato attraverso una locandina affissa in casa di Farid, il viaggio del protagonista è, infatti, certamente metaforico ma filmato in modo realistico, senza risparmiare le asperità del paesaggio iraniano e un'attenta osservazione ambientale. Quando, infatti, Farid realizza che Hadieh è una perseguitata politica a cui vengono somministrati sedativi per renderla innocua, inizia con lei una lunga fuga che li porterà sul Mar Caspio e verso il confine turco, nel villaggio di origine della famiglia del padre. La descrizione iniziale di Hadieh dell'ospedale come prigione, che Farid aveva preso come metafora, diventa improvvisamente brutalmente aderente alla realtà.

Nel lungo segmento del viaggio, che impone una svolta narrativa al film dalla claustrofobia notturna dell'ospedale agli spazi aperti che la coppia di fuggitivi attraversa, Delaram negozia le convenzioni di generi a lui cari come il road movie e il thriller. Non ci sono inseguimenti spettacolari né sparatorie tra i due ricercati e la polizia, eppure avvertiamo che la repressione e la sorveglianza sono ovunque. Forse anche all'interno dei muri che sembrano prendere una vita propria, intrappolando con colpi e parole i cittadini nelle loro paure e sensi di colpa.

Ancora una volta, i due livelli, metaforico e della reale, si fondono in maniera efficace: muri come detenzione materiale, muri come detenzione della mente. Siamo di fronte ad una metafora solida, granitica, difficile da demolire nell'ambiguità di possibili altre interpretazioni. Lo stesso regista afferma di aver voluto realizzare Achilles con la "massima onestà, evitando le sottili metafore che spesso usiamo per affrontare questioni delicate".

Una presenza inquietante quella della polizia, che è palpabile ed è capace di generare tensione pur non vedendosi mai direttamente, se non alla fine del film e, comunque, mediata da una ripresa del telefonino di Farid. In questa ripresa, come nella successiva in cui Farid gira un video mentre prende a spallate un muro, c'è l'idea del cinema come impegno e resistenza, testimonianza e documento, quella terza via tra la sottomissione alle regole della censura e l'auto-imposizione del silenzio che fa ritrovare all'artista il senso del suo lavoro.

Quello che invece viene mostrato chiaramente e a più riprese, è il rapporto di solidarietà che, di fronte alla persecuzione di un regime brutale, si instaura immediatamente anche tra sconosciuti. I diversi cittadini che Farid e Hadieh incontrano nel corso del loro viaggio sono anche più consapevoli di loro della minaccia della polizia politica e sono pronti a suggerire deviazioni, strade alternative, luoghi dove poter trovare rifugio e aggirare i muri del regime.