Se sia “l’acqua che lava l’anice o l’anice che sporca l’acqua” non lo sa nemmeno Olimpia (Stefania Sandrelli, stralunata il giusto), ex-cantante di liscio che per l’“acqua e anice” ha una vera passione e che prova a descrivere questa “magia” alla sua giovane compagna di viaggio Maria (Silvia D’Amico), una ragazza che si è licenziata dal lido dove Olimpia ama prendere il sole in topless nonostante le rimostranze del gestore. Il road-movie di Corrado Ceron, che omaggia nel titolo l’amato cocktail e che di questo trasmette tutta la freschezza, segue le due donne nel loro viaggio in furgone dalla Romagna alla Svizzera muovendosi su un doppio percorso: quello fisico, geografico e quello interiore lungo la strada della memoria.

Il tragitto verso Zurigo è infatti costellato di incontri con persone e personaggi appartenenti al glorioso passato di Olimpia: gli amici di un tempo, membri dei Capricci di Olimpia, che – anche se non lo sanno – hanno bisogno di ricevere dalla sfacciata e indipendente compagna di avventure dei tempi che furono una piccola ramanzina, un abbraccio consolatorio, uno sprone a sistemare i conti aperti col passato. Olimpia stessa ne ha bisogno, dato che l’amica che sta andando a trovare in Svizzera è qualcosa di diverso da ciò che Maria s’immagina quando la donna le offre il lavoro di autista per farsi accompagnare. In realtà a Olimpia serve una guida in senso lato perché la sua lucidità non è più quella di una volta e nei sempre più frequenti momenti di confusione si perde, non ricorda più cosa deve fare, non riesce a mantenere una salda connessione col presente.

Il rapporto tra le due donne si carica quindi di molteplici connotazioni con l’avanzare del racconto, e non è fuori luogo (a prescindere dai colpi di scena disseminati nella parte finale dell’opera) leggervi la costituzione di un atipico nucleo familiare, specialmente se confrontato con la famiglia tradizionale della sorella di Olimpia, fresca di matrimonio over-60: se da una parte si trovano l’altruismo, la libertà e il rispetto, dall’altra vi sono le convenzioni e l’ottusità.

E allora, pur se lo spettatore smaliziato saprà leggere tra le righe e capire in anticipo il vero scopo del viaggio, ciò non inficerà il piacere della visione perché Acqua e anice è un bel film, che ben si inserisce in una tradizione cinematografica tutta italiana non solo perché retto da una di quelle attrici che hanno contribuito a rendere grande il cinema del nostro Paese, ma perché eredita dalla commedia all’italiana quel mix di dolce e amaro che riesce a far riflettere su temi importantissimi con un tocco gentile.

Già, perché al di là dell’efficacissima scrittura dei personaggi e del puntuale bilanciamento tra le due protagoniste (che ritrovano sempre un equilibrio, come i due ingredienti del cocktail), colpisce di questo film il tono che Corrado Ceron ha scelto per affrontare il tema alla base del viaggio. Un tono leggero, anche se malinconico; un tono che rispecchia perfettamente lo spirito di Olimpia, alla quale non si può non voler bene, forse anche per quella sua capacità di sciogliere la tensione con un sorriso, di cambiare registro con uno sguardo, di mai abbandonarsi alla negatività.

È anche da qui che emerge come le due figure femminili siano legate metaforicamente come l’acqua e l’anice, nella compenetrazione dei loro caratteri: si cambiano e si arricchiscono vicendevolmente, perché mentre Maria insegna ad Olimpia ad essere altruista e a riconoscere la responsabilità delle proprie azioni e le conseguenze del proprio agìto, la donna insegna alla giovane ad essere libera e a godersi il presente, ovvero a vivere.

Risulta efficace la scelta di Ceron, sempre coerentemente rispettata, di farci vivere il viaggio attraverso gli occhi di Olimpia, seguendola con camera a spalla o inquadrature ravvicinate, oggettivando addirittura le sue proiezioni mentali e ricostruendo il suo passato senza l’uso di flashback ma attraverso i dialoghi e una fluidità registica che fa respirare le sensazioni della protagonista, come nella bellissima sequenza dello scheletro della balera, correlativo oggettivo di un ri-abitare il passato, della rivisitazione dei Giorni più felici.