In Thirty Years of Adonis, settimo lungometraggio del controverso Danny Cheng Wan-Cheung detto “Scud”, si ritrovano elementi davvero eterogenei. Il percorso dell’eponimo protagonista, che da “Opera performer” diventa un cosiddetto “sex worker” (ovvero una persona che guadagna offrendo il suo corpo come attore di film hard, massaggiatore e/o gigolò), permette al regista di esplorare sia visivamente sia a livello tematico gli aspetti della natura umana che costituiscono i suoi soggetti abituali: il sesso, la nudità, la bellezza, la definizione di sé attraverso il proprio corpo. Qui, l’autore cinese cresciuto ad Hong Kong trova in una narrazione non cronologica lo strumento per avvolgere questi aspetti molto fisici in un afflato spirituale, coinvolgendo il karma, l’aldilà e la reincarnazione. Tuttavia, proprio questa disorganicità narrativa fa apparire tale coinvolgimento di temi alti come un semplice tentativo di nobilitare una materia altrimenti poco elevata.

S’intuisce ad esempio l’aspirazione a trattare la bellezza come elemento di dannazione più che di perfezione (il riferimento al mito greco nel nome del protagonista è già un indizio), ma l’abbondare di ragazzi ritratti nella loro nudità diluisce il messaggio destinando una riflessione potenzialmente interessante al semplice appagamento di un voyeurismo, tanto dell’autore quanto dello spettatore. Adonis è infatti rappresentato come oggetto di desiderio prima ancora che oggetto sessuale e soprattutto come oggetto di uno sguardo: diversi sono i dispositivi ottici presenti nel film (dal microscopio al cannocchiale che emerge dalle tende del set a luci rosse) ed è innegabile che il guardare sia uno dei temi principali del film. Adonis viene inquadrato dalle macchine fotografiche quando è nel ruolo di modello di foto di nudo, dalle macchine da presa quando è un attore di film hard, da Scud sia in quanto protagonista del suo film e del film-nel-film sia in quanto simbolo di un desiderio alla cui contemplazione l’autore si abbandona.

L’elemento religioso in senso stretto, poi, si esplicita attraverso i mantra che il protagonista ripete (da bambino insieme alla madre, da solo nel momento della resa dei conti finale), oppure nella figura di “Sis-Yin”, che pare avere un contatto speciale con l’aldilà, o ancora attraverso le statue di Buddha del tempio thailandese dove Adonis e Sis-Yin passeggiano nel loro colloquio chiarificatore, ma coinvolge anche la simbologia cristiana della croce che, pur richiamando il concetto di sacrificio, viene utilizzato più volte in situazioni – specialmente quella del set pornografico – blasfeme e gratuitamente violente.

I temi dunque ci sono, come anche la provocazione visiva e concettuale. Solo che si fatica a capire il senso dell’operazione in generale, salvo leggerla come un esercizio non particolarmente innovativo sul tema del karma. Se infatti il messaggio che il film vuole trasmettere è quello che emerge dal dialogo tra Sis-Yin e Adonis – ovvero che anche se tutto è predestinato bisogna comunque dare il meglio di sé in questa vita – non si trova un concreto riscontro nella vicenda narrata.