Archiviato con Dunkirk il tentativo di coniugare la propria poetica con la grande narrazione storica, Nolan sembra tornare nel territorio in bilico tra thriller e sci-fi che ha caratterizzato alcune delle sue opere più acclamate, tra le realtà parallele di Inception e la space opera contemporanea di Interstellar. Peccato che, dopo la prima mezz'ora di sparatorie e dialoghi criptici, inizi ad aleggiare in sala un olezzo soffocante. Tralasciate le facili battute sulla (scarsa) igiene dei (pochi) cinefili, si prende atto che il colpevole è il film: sotto l’adrenalina delle sequenze action si nasconde un melodramma morto stecchito.
L’idea centrale della sceneggiatura (“invertire la materia” per farla viaggiare indietro nel tempo), si autodenuncia immediatamente come McGuffin concettuale; non è un caso che, proprio mentre viene esposto, lo stesso regista ci raccomanda di dont’ try to understand it. Ed è così che, sepolto dal cerone dei paradossi temporali, Nolan rifila alla platea il cadavere del più tradizionale dei kammerspiel borghesi: moglie giovane e fragile, marito anziano e violento, amante idealista e dolcemente selfless. Ma il cadavere è vecchio e puzza: per ovviare al problema Tenet solletica le narici dello spettatore “colto” con un tourbillon di riferimenti, tritando insieme stralci di T. S. Eliott, pizzichi di fisica speculativa, brandelli di Hume e un uso didascalico del “quadrato magico”, formula palindroma il cui significato, un po' come quello del film, risulta tutt'oggi incerto. A completare l'opera del Nolan tanatoesteta intervengono i clichè del blockbuster hollywoodiano politically correct: protagonista di colore, donna forte che punta il dito contro il patriarcato, strizzata d'occhio alla crisi ecologica. Tutte scelte rispettabili, se solo John David Washigton riuscisse a non sfigurare davanti a Robert Pattinson e Kenneth Branagh, se il personaggio femminile principale non fosse un triste stereotipo fuori tempo, se l'ecologia non fosse liquidata con due battute insipide.
Il blockbuster di Nolan, ad oggi il più oneroso della sua filmografia, costituisce un ottimo riassunto della strategia adottata dalle grandi produzioni americane per salvare i tent pole movies minimizzando i rischi: superato il reboot, ci si dirige silenziosamente verso il patchwork, brandelli di narrazioni logore tenute assieme da un’idea apparentemente innovativa. Piuttosto che investire realmente sulla rappresentazione di nuove storie, individualità e problematiche, la scelta dei produttori è ingegnarsi per rendere appetibile al pubblico uno spettacolo alla base sempre uguale, eseguito però con maestria quasi ineccepibile. D'altronde, come ci insegna il Protagonista di Tenet, per salvare il futuro bisogna rivolgersi al passato.