È difficile spiegare a chi non le ha mai provate certe cose tanto semplici quanto irripetibili: stendersi sopra un grande tappeto di lana, giocare a biliardo con ragazzi più grandi, mangiare l’ultimo cucchiaino del gelato di qualcun altro, fumare una sigaretta su un balcone di notte, spalmare la crema solare sulla schiena di una persona che ami. O ancora, un tuffo: un’azione ripetuta chissà quante volte, e durante la quale tuttavia sempre ci si ritrova sospesi a ciò che ancora non è accaduto o che invece già sta accadendo, l’istante che immediatamente precede lo schianto nell’acqua.

Di cose e momenti come questi è fatto Aftersun, l’esordio di Charlotte Wells da pochi giorni su MUBI. Film “ambient”, quasi di sottofondo, nel senso che solo dietro la superficie narrativa dei fotogrammi e nello strato sonoro secondario si scoprono gli elementi emotivi e le scelte formali che rendono tanto delicato e straziante il racconto della vacanza estiva di Sophie e di suo padre Calum in un villaggio turistico turco alla fine degli anni ’90.

Come già nei cortometraggi diretti tra il 2016 e il 2017 (Tuesday, Laps, Blue Christmas), la regista scozzese lavora per accenni, dimostrando particolare cura per il sonoro e l’interazione tra i gesti dei personaggi e il mondo che li circonda, nel tentativo di far funzionare il film come la memoria della protagonista che, vent’anni dopo, cerca nei ricordi discontinui e apparentemente trascurabili di quei giorni le tracce di una gioia condivisa e gli indizi del dolore segreto del padre.

L’intermittenza – la stessa della macchina da presa che si apre e si chiude come un occhio – è la cifra stilistica fondamentale: la serenità assolata delle giornate a bordo piscina e delle escursioni subacquee si stempera nei notturni che rivelano la sofferenza e la solitudine di Calum; alle sequenze del soggiorno si alternano i filmati amatoriali girati nel resort (il film si apre proprio col rumore della videocamera portatile) e le luci stroboscopiche di un rave dove Sophie, che adesso ha la stessa età di suo padre allora, sogna di ritrovarlo e ancora perderlo. In Aftersun il presente si intromette più spesso di quanto si creda nel passato, e viceversa, sino al doppio piano medio finale che lascia giusto intuire la scomparsa precoce di Calum dal punto di vista di Sophie.

Nonostante Wells si dimostri attenta alle sfumature espressive di Paul Mescal e Frankie Corio, la parte centrale del film indugia nel registro intimista, almeno nei passaggi in cui l’ispirazione autobiografica rende ripetitivo il trascorrere lento della quotidianità vacanziera, così come la fotografia di Gregory Oke, per quanto impeccabile, insiste troppo sull’effetto nostalgico della simulata grana analogica. Ma è presto chiaro che la banalità delle situazioni familiari serve a dare spessore alle azioni disperate di Calum che resteranno senza una spiegazione, tanto più che potrebbe trattarsi di frammenti di vita immaginati dalla Sophie adulta.

Quest’interferenza tra il presente e il passato conduce il film a un crescendo visivo vorticoso che coincide con una scena di disarmante intensità. Sulle note di Under Pressure, a sua volta sovrapposta al violoncello dilatato di Oliver Coates, si confondono il ballo liberatorio dell’ultima sera nel villaggio turco e l’abbraccio impossibile durante il rave. Incontratisi "at the still point of the turning world" (dal Burnt Norton di T. S. Eliot che la stessa Wells ha citato in una nota sul film) Sophie e Calum danzano nel centro immobile del tempo, dove il passato non è ancora finito e il futuro (i vagiti del figlio di Sophie che chiudono il film) già comincia, mentre lo schermo dà spazio e luce alla memoria palpitante dei loro corpi che si stringono una volta ancora, l’ultima.