Just do it, Stay hungry, stay foolish, I have a dream: Nike, Steve Jobs, Martin Luther King. Ben Affleck li rimescola, li accosta e li individua quali colonne portanti degli Stati Uniti pre-declino imperiale nel suo ultimo film da regista Air – La storia del grande salto.

La Nike e il suo non florido reparto basket degli anni ’80 sono al centro della storia; la filosofia imprenditoriale di Jobs, celebre quanto il suo autore, risuona ante litteram in ogni mossa del Sonny Vaccaro-Matt Damon che di quel reparto è il direttore; e l’afflato civile di King, su cui si sofferma l’allenatore George Raveling durante una chiacchierata al bar con Vaccaro, a fatica si può pensare svincolato dalla questione razziale che inevitabilmente permea uno sport a predominio nero, per lo meno nella sua parte giocata sul campo. Sullo sfondo l’ultra vitale Born in the U.S.A. di Springsteen e la sua eredità finemente celebrativa e anticelebrativa insieme.

Ottimista, visionaria e giusta, l’America a cui guarda Ben Affleck è quella di un passato rimpianto con nostalgia e ironia, di poco successivo agli anni mostrati nel geopolitico Argo, in cui simili visionarietà e capacità di osare scaturivano, come in Air, da sani principi e onesta messa a rischio del proprio stesso destino.

Si mette a rischio Sonny Vaccaro, che sceglie di puntare tutte le sue fiches su un unico giocatore per cucirgli addosso una scarpa che diventi lui e lo rappresenti ovunque e per sempre, il direttore del marketing Strasser (Jason Bateman) e l’amministratore delegato Knight (lo stesso Affleck), individui e individualità che lo sostengono nell’impresa di reclutare un altro unico individuo, perché potenzialmente esplosivo, e di investire tutto per passione e convinzione sportiva su una mossa imprenditoriale inedita e innovativa.

E a rischio si mette la famiglia di Michael Jordan, che crede nel suo tesoro conteso da più concorrenziali rivali tanto da spuntare sì alla Nike una clausola storica per il suo contratto di ingaggio, ma da farlo anche per rimettere in un circolo virtuoso, progetto di lungo termine per la crescita degli ultimi, quella montagna di soldi accordata e costruita su un destino ancora da scrivere.

Scommesse coraggiose, tutte, tipiche di un capitalismo né isterico né fraudolento, ma dai tratti favolistici che non temono di confondere i personaggi di Principe e Cenerentola attorno alla scarpa e al piede spropositato che la calzerà.

Come nelle sue precedenti pellicole, Affleck si circonda di un comparto tecnico di prim’ordine, dal mitico direttore della fotografia Richardson al montatore Goldenberg, che il regista sceglie di sfruttare in modo non propriamente autoriale, ma artigiano. Non è verso l’autorialità che desidera andare, ma verso il divertito omaggio a tempi e valori che furono, schematizzati e ridicolizzati negli orrendi mocassini di Vaccaro e nelle fluorescenti fisse sportive di Knight, ed elevati nella visione di futuro di entrambi e della famiglia Jordan. Born in the U.S.A., appunto.