C’è un paesaggio, una macchina abbandonata e tre bambini che giocano. Sono viaggiatori nello spazio che si sono avvicinati troppo al sole, hanno appena visto un alieno e stanno per essere travolti da un meteorite. Ma fuori dai finestrini, quel viaggio vive un livello di minaccia maggiore, più tangibile, più concreto: una gru è venuta a sradicare parte del terreno della loro famiglia. Allora, tutta l’immaginazione e la visionarietà fantascientifica da blockbuster deve cedere il passo al reale, a qualcosa di più concreto. Qualcosa che tocca gli attori oltre che i personaggi, così come gli spettatori e gli oggetti di scena.

Quella di Alcarràs – secondo lungometraggio di Carla Simón, Orso d’oro all’ultima Berlinale – è una sequenza iniziale programmatica. Una dichiarazione di intenti, per un cinema che tende più al reale che alla finzione, più votato al pedinamento che all’invenzione, più interessato allo spazio che alla narrazione.

La trama non smentisce. La famiglia Solé, coltivatori di pesche nella campagna catalana, si ritrova da un giorno all’altro a fare i conti con un vecchio proprietario intento a cedere il terreno all’installazione di pannelli solari. Il gruppo familiare lavora circondato dalle piante che occultano la vista, che occultano l’orizzonte visibile, la conoscenza di ciò che sta fuori, di ciò che succede nel mondo. Il che suggerisce il ritorno del tema del “nuovo contro il vecchio”, del progresso che appiattisce la tradizione e, soprattutto (è attuale anche in Italia), della scomparsa del mondo contadino, di cui questo film si fa (come per l’appunto si è fatto anche in Italia, si veda Omelia contadina) litania funebre di una cultura che si sta sciogliendo. Mortificato addio alla terra come casa, radice e famiglia, alla sua fermezza e solidità.

Carla Simón, lei stessa di famiglia contadina, sembra guardare alla delicatezza dei racconti familiari di Kore'eda e alla “morale” contadina di Alice Rohrwacher, per un’opera che ha tutto dell’autobiografico, ma nulla di particolarmente politico e militante. Pur decidendo di trattare le problematiche del volto rurale catalano (tra cui l’abbassamento dei prezzi che penalizzano le piccole attività familiari), Alcarràs sorvola su altre questioni specifiche (come, per esempio, quella del conflitto tra campi e pannelli solari, questi ultimi tendenzialmente narrati come punto cardine di un progresso sostenibile), affidandosi a un approccio lontano dal progettuale, ma anche lontano dal magico. Per un film più asciutto, nel bene o nel male, che fa dello sguardo al quotidiano il suo punto di forza, nei piccoli gesti, negli sguardi (spesso anche fuori campo o in un fuoricampo mostrato solo in ultima battuta) piccoli, ma collettivi.

Più reale che di finzione dicevamo. Ma Alcarràs è anche un film che vede nell’immaginazione l’unica via di fuga, nello sguardo del bambino (ancora punto di interesse, come nel precedente esordio Estate 1993) l’unico “dispositivo” anti-realistico possibile. Qualcosa di oltre: diverso dal “vecchio”, diverso dal “nuovo”. Nel finale, mentre una gru distrugge le piantagioni, i bambini giocano. E l’orizzonte dell’immaginazione è l’unico orizzonte rimasto.