Cogliere le qualità che hanno reso unica Alida Valli, di cui oggi ricorre il centenario della nascita, è un tentativo che parte da due aggettivi pertinenti quanto efficaci impiegati da Oriana Fallaci per descriverla ai lettori de “L’Europeo”. Nell’introduzione all’intervista pubblicata il 10 gennaio 1965 con l’emblematico titolo Lo specchio del passato, la Valli viene definita come “la donna più schiva, modesta che vi capiterà di incontrare in un mondo (quello del cinema) dove gli aggettivi schivo e modesto son banditi dal vocabolario” e invero la riservatezza e la modestia sono le caratteristiche che si riveleranno determinanti per la carriera e per i risvolti biografici dell’attrice. Nel corso di questo incontro viene offerta infatti una testimonianza che sfocia nella più schietta confessione di una celebrità consapevole di aver attraversato un’eterogeneità di correnti autoriali, generi cinematografici e sistemi produttivi, in un tragitto accomunato dal magico dono di imprimere con il proprio talento la pellicola, tuttavia restando volutamente estranea da quell’universo.
Il corpo e lo spirito battagliero della Valli la consegnano sì come “lo specchio del passato”, ma anche come la punta di diamante di quel divismo che nella prima metà del Novecento si è inserito nelle pieghe del tessuto socio-culturale del nostro Paese riverberando le contraddizioni di una settima arte spesso incapace di riproporre la realtà. Riversando paradossi e stereotipi, lungo la sua evoluzione il cinema italiano ha sviluppato la storia della nostra identità in un incrocio tra registro comico e drammatico che ha fotografato, talvolta attraverso plurime distorsioni, il valore e il (de)potenziamento della condizione femminile. Proprio in questa prospettiva si inserisce la schiera di fanciulle scanzonate, eroine tragiche, donne disincantate e madri devote che troveranno la massima rappresentazione nel volto della Valli, una maschera la cui potenza fotogenica risiede in una rara commistione tra raffinata eleganza, quel “profilo di cammeo” aderente ai canoni del melò più tradizionale, e moderna vulnerabilità, ideale per riproporre le tinte più buie.
Per quanto vincolate agli stilemi narrativi delle varie epoche, le donne di Alida Valli sfuggono a una rappresentazione monolitica e tratteggiano una parabola esistenziale che è anche il percorso tortuoso della donna nella nostra civiltà: altera, introversa ma allo stesso tempo mossa da grande temperamento, la Valli ha percorso un itinerario caleidoscopico che offre una storia del cinema fatta di fantasticherie, controsensi, tentativi, denunce e aggiornamenti, e se la potenza delle immagini ha permesso alle sue protagoniste di depositarsi nell’immaginario collettivo, d’altra parte la sua vita è “una saga che si addice a ciascuno di noi, in cui si rispecchia ciascuno di noi” e il suo volto è quello dell’Europa “coi suoi rimpianti e i suoi errori”.
Dalla smaliziata fidanzatina in Mille lire al mese (1938) di Neufeld alla capricciosa collegiale in Ore 9: lezione di chimica (1941) di Mattoli, la Valli ha superato la stereotipizzazione evasiva del cinema dei telefoni bianchi che la voleva come la Deanna Durbin d’Italia in quelle “favole sciocche, a lieto fine, e raccontate male per giunta”, dimostrando invece una maturità interpretativa nei panni di Luisa Rigey in Piccolo mondo antico (1941) di Soldati: il primo piano della donna inginocchiata al capezzale della figlia annegata, con il chiaroscuro delle candele a risaltare la trasognante rassegnazione materna, mette in luce la sua straordinaria sensibilità, capace di passare con credibilità dall’angoscia suffusa alla flemma glaciale.
Gli anni Quaranta vedranno il repertorio di Alida Valli arricchirsi di convincenti prove melodrammatiche come Kira nel propagandistico Noi vivi (1942) di Alessandrini, Maria in Stasera niente di nuovo (1942) di Mattoli – iconica nella scena in cui canta il proprio struggimento amoroso sulle note di “Ma l’amore no” – e la tormentata eroina in Eugenia Grandet (1947) di Soldati, dei modelli femminili che nella patina di pathos restituiscono un dissidio interiore di estremo coinvolgimento.
Anche se la sua fisionomia risulta distante dalla fisicità tragica delle opere neorealiste, questo non le ha impedito di volare prima fra tutte oltreoceano e di affermarsi a Hollywood, distaccandosi dai filoni del cinema nostrano attraverso una breve parentesi in cui, dall’algida Maddalena Paradine ne Il caso Paradine (1947) di Hitchcock alla disillusa Anna ne Il terzo uomo (1949) di Reed, ha dimostrato di essere perfettamente integrata nel sistema hollywoodiano ma, ancora una volta, una professionista libera e indipendente.
Il rientro in Italia è all’insegna di Franciolini che, dopo averla collocata nel Neorealismo d’appendice con Lina in Ultimo incontro (1951), la dirigerà nel secondo episodio di Siamo donne (1953), in cui il binomio arte-vita si traduce con l’interpretazione di una stella del cinema che cerca di evadere per una sera dal mondo dello spettacolo: suggestiva la sequenza della festa in cui il personaggio della Valli si muove curiosa e febbricitante tra i presenti, emozionandosi per il fischio di un treno in lontananza, simbolo di una libertà e di una normalità sconosciute.
Se in Senso (1954) di Visconti il melodramma storico è lo sfondo in cui il côté mitteleuropeo della Valli si sprigiona nei costumi e nelle acconciature ottocentesche, nell’espressione disperata e nello smarrimento della contessa Livia Serpieri che tra le calli veneziane raggiunge l’ufficiale austriaco per cui tradisce la patria, la diva non cesserà di rinnovare ulteriormente la propria immagine in progetti come Il grido (1957) di Antonioni, in cui si concede a momenti contraddistinti da forti tensioni drammatiche come la sequenza del litigio in cui il personaggio di Irma viene schiaffeggiata pubblicamente da Aldo.
Sull’onda del pessimismo e dell’inquietudine proseguono altre sue prove attoriali come quella marginale ma incisiva di Claudia in Ofelia (1963) di Chabrol, senza dimenticare le collaborazioni con Bertolucci, il quale ha saputo sfruttare la sua dolcezza mista a sensualità con Draifa in La strategia del ragno (1970) e la sua vis patetica con Ida Cantarelli Pioppi in Novecento (1976).
Da interprete matura la Valli non si è sottratta poi a una continua sperimentazione: Suspiria (1977) e Inferno (1980) in questo senso sono i titoli in cui il genio di Argento incontra la divertita tensione al rinnovamento della diva che si sottopone a una trasfigurazione orrorifica con elementi iconografici memorabili, dallo chignon, il trucco mefistofelico, il tailleur nero con cravatta e le francesine di Miss Tanner, al giro di perle e il grande colletto bianco della portinaia Carol, destinata a morire tra le fiamme.
Rispetto all’iper-divismo contemporaneo, parcellizzato in ogni ramificazione dell’intrattenimento e della società mediale, a distanza di cento anni Alida Valli rimane ancora un esempio di tenacia performativa, quella di una donna che ha dedicato la sua vita, tra fallimenti e risalite, a un’arte basata sulla finzione che è in fin dei conti “un gioco, un divertimento, uno sfogo”. Un noncurante abbandono alla recitazione sorretto comunque da una solida determinazione: se il destino di ciascuno di noi è presagito nel nome (nomina sunt omina), possiamo intravedere allora il suo coraggio dentro e fuori lo schermo in quel nome così particolare, Alida, che nella sospesa ambiguità etimologica tra “nobiltà” e “battaglia” l’ha regalata infine come una nobile guerriera del cinema italiano.
[Citazioni da Oriana Fallaci, Intervista con il mito, Milano, Rizzoli, 2010, pp. 379-396.]