Amira ha la passione per la fotografia. È abile nei fotomontaggi: si diverte a creare scenari ipotizzabili ma sostanzialmente irreali, che ritraggono lei o i suoi genitori insieme. Il padre si trova in un carcere israeliano condannato a vita per terrorismo. Amira lo conosce solo grazie alle brevi visite in prigione e grazie ai racconti di sua madre che lo ha sempre ritratto - come se fosse una fotografia - da eroe. Come un uomo che ha saputo sacrificarsi e per cui è giusto ricambiare con la stessa deferenza.
Quando, infatti, avanza l’idea di avere un altro figlio (con la stessa pratica adottata per Amira, ossia con la fuoriuscita clandestina di sperma per la fecondazione artificiale) entrambe le donne non possono che sentirsi obbligate ad accontentarlo. Il tentativo, però, fallisce e si scopre che il padre della ragazza è, in realtà, infertile.
Amira non sa più a chi o a cosa appartenere. Guarda le foto di lei e suo padre, prova a sovrapporle e a confrontarle, per poter smentire la parola del medico che ha provato il concepimento. Non riesce più a riconoscere le stesse somiglianze, non è più in grado neppure di definire se stessa: non è più la figlia di un eroe, è la figlia di nessuno. Anche il padre, dal carcere, riguarda le foto (quelle che la figlia ha “rimontato” per consentirgli di viaggiare e spostarsi, almeno con l’immaginazione) e sente di non avere più neppure la speranza a cui affidarsi per resistere alla prigionia. Ma è davvero tutta una questione di DNA, non abbiamo una nostra volontà?
“Mi assomigli comunque”, dice il padre ad Amira, che prontamente risponde dicendogli che gli assomiglierà sempre, perché si rivedrà nelle stesse idee e negli stessi valori. Però, è proprio quando vengono meno questi ultimi a crollare anche l’identità (ancora labile, dal momento che la ragazza ha appena diciassette anni) e diventa difficile riconoscersi. Non possono sopperire le “manipolazioni” di photoshop, che consentono di trovarsi in qualsiasi posto e con chiunque desideriamo. Persino al matrimonio dei suoi genitori il padre era presente solo attraverso una fotografia. Fondamentalmente non lo ha mai conosciuto, come forse non ha neppure conosciuto se stessa.
Suo padre viene descritto come terrorista e come prigioniero di guerra: come possono coesistere insieme le due definizioni? Si dovrebbe stabilire se appartenere ad un’idea o all’altra, schierarsi, opporsi? Non vengono neppure descritti gli eventuali crimini perpetrati dal padre, eppure quelle parole hanno il loro peso, attribuiscono un marchio permanente, che Amira non può eliminare, rimontare o ritoccare come fa con le foto. C’è una Storia che impedisce di ignorare il peso delle parole, dell’importanza dei nomi e dei cognomi che possono determinare la sopravvivenza o la morte. Cosa sarebbe meglio, avere il nome giusto ma senza riconoscimento da Israele? Vivere senza carta di identità, senza la possibilità di viaggiare o i diritti a visite in prigione?
Amira, presentato a Orizzonti di Venezia 78, è il terzo lungometraggio del regista egiziano Mohamed Diab, che ha voluto un cast e un produttore palestinesi. Non è la prima volta che il cineasta si misura con queste tematiche; nel 2016, infatti, con Clash aveva raccontato il golpe del 3 luglio 2013 che scatenò in Egitto la guerra tra l’esercito dei Fratelli Musulmani e le forze di sicurezza. E lo aveva fatto anche servendosi di cellulari e riprese video, sfruttando ogni tecnica possibile per restituire l’immagine di un conflitto così difficile da spiegare al mondo.
Anche in Amira si ripresenta la necessità di raccontare mantenendo, però, sempre una profonda aderenza alla realtà. Di indagare le radici di un odio che non si può risolvere soltanto in una questione genetica. Diab vuole raccontare una e più verità, come diceva Pirandello in una delle sue commedie più conosciute, “Così è (se vi pare)”: “La verità non ha volto, e ha tanti nomi quante sono le persone. “Chi sono?”, diceva un personaggio, “Io sono colei che mi si crede”.
Ecco come parla la verità di Mohamed Diab, mantenendo un tono sobrio, che insiste proprio sull’impossibilità di ignorare certe realtà. Riportandoci alle indagini di Asghar Farhadi, attraverso uno sguardo lucido, senza imporre mai un quadro morale ed etico definitivo, né esprimendo giudizi assoluti.