Presentato nel 1947 alla seconda edizione del Festival di Cannes, il film Amore e fortuna (Antoine et Antoinette) di Jacques Becker si aggiudicò il riconoscimento come “miglior film psicologico o d’amore”. Una denominazione che oggi potrebbe far sorridere, ma che allora rappresentava uno dei principali premi attribuiti dalla prestigiosa rassegna francese, il cui palmarés era strutturato diversamente da quello odierno. All’epoca era prevista una ripartizione per generi, secondo la quale i film in concorso venivano premiati a seconda della propria categoria di appartenenza. Fa quindi riflettere come a fianco delle più canoniche classificazioni relative all’avventura, al film musicale o alla tecnica dell’animazione si trovi anche questo curioso gruppo dedicato parimenti alle opere riguardanti i temi della psicologia o dell’amore. Un accostamento non immediato ma che nella tradizione della commedia francese trova la sua giustificazione.

Un film come Amore e fortuna è un esempio particolarmente calzante di questo binomio che ancora oggi è ossatura portante di certo cinema transalpino. Leggerezza espositiva e tragiche dissonanze nel carattere di personaggi straordinariamente ordinari, dialoghi verbosi e frizzanti, toni sopra le righe ma mitigati da una velata malinconia di fondo sono elementi del film di Becker sopravvissuti all’erosione del tempo e ancora centrali ad oltre settant’anni di distanza. Nel caso in questione tutto ruota attorno alle goffe peripezie di una giovane coppia nella Parigi del secondo dopoguerra. Antoine è un tipografo dalle scarse ambizioni, mentre la compagna Antoinette è un’impiegata presso un magazzino dei Campi Elisi, parzialmente soddisfatta della propria vita. Lo scossone in questa monotona ma non disprezzabile routine arriva sotto forma di biglietto vincente della lotteria, il quale potrebbe fruttare ben ottocentomila franchi.

Attorno a questa anomalia del quotidiano ed alle possibilità da essa innescate ruotano gli eventi, le sviste e le rincorse che animano questa modesta ma genuina opera minore del regista di Casco d’oro (1952) e Il buco (1960). Una blanda e costante forza inerziale regola le azioni di personaggi che nella normalità della loro esistenza incontrano sfide e difficoltà in grado di renderli più maturi e consapevoli di loro stessi. E se il ricorso ad improbabili flashback risolutivi appare oggi come un espediente alquanto ingenuo, Amore e fortuna non perde di credibilità proprio in virtù della chiarezza dei propri intenti e dell’umiltà con cui si propone allo spettatore senza alcuna pretesa di essere altro rispetto a ciò che viene mostrato.

La modestia si trasforma quindi in una marca stilistica che pervade le atmosfere, gli elementi della messa in scena, la scrittura. Non un pedinamento del reale quanto più un’esaltazione dei piccoli drammi individuali, che attraverso un occhio cinematografico particolarmente attento possono farsi preziosa sostanza ai fini del racconto. In questa pertinenza di intenti, in cui sentimento e psicologia si sciolgono in un caloroso abbraccio, Amore e fortuna rivela una profondità celata che si accompagna alla volontà spontanea di intrufolarsi nella vita di due persone comuni e soggiornarvi con inaspettato piacere.