Il secondo lungometraggio di Piero Messina ha ambizioni alte, modellandosi in uno sci-fi dalle tinte metalliche e dall’aura internazionale. Ancora una volta il giovane regista torna sul tema della perdita, del dolore come espressione dell’interiorità più profonda dei suoi personaggi. Dalle campagne siciliane, ambientazione de L’attesa del 2015, questa nuova opera sposta l’obiettivo su una metropoli localizzata in un tetro futuro distopico, non troppo distante dal presente.
Sal (Gael García Bernal) ha appena perso la compagna Zoe (Renate Reinsve) in un incidente stradale e soffre per il lutto, arrivando persino a tentare il suicidio. Per aiutarlo a superare il trauma la sorella gli propone di rivolgersi all’azienda per cui lavora, la quale ha brevettato un’inquietante sistema. Si tratta di un programma futuristico che permette di salvare in una sorta di hard disk i ricordi, e quindi l’identità, del defunto e di installarla per un breve periodo nel corpo di un volontario, chiamato host. L’obiettivo è quello di aiutare chi ha perso qualcuno affinché possa prendersi del tempo in più per dire addio alla persona amata.
Il secondo film di Piero Messina riflette nuovamente sul tema della perdita, sulla condizione universale del dolore nel momento in cui si perde una persona cara. Il mondo costruito in Another end è composto principalmente da individui fragili, incapaci di gestire la sofferenza, terrorizzati dal fronteggiare le proprie emozioni che li investono e li lasciano inermi. Così Sal precipita nell’inazione, nel vuoto proprio di chi non ha più niente per cui vivere, come se il senso della sua esistenza fosse interamente racchiuso in Zoe.
La società moderna, isolando gli individui, rendendoli prigionieri di edifici spogli, squadrati, geometricamente violenti, come le strutture in cui è ambientato il film, li ha resi come bambini che per la prima volta si trovano ad affrontare sentimenti che non comprendono. Il programma Another End sembra venire fuori proprio da questa incapacità di accettare la realtà, prolungando artificialmente qualcosa che è già finito.
Nonostante questa premessa, la sceneggiatura fatica a reggere il peso delle questioni trattate. Il soggetto scelto da Messina solleva numerosi quesiti filosofici di non facile gestione. Il primo dei tanti problemi sul quale la pellicola scivola è di natura etico-morale, finendo per romanticizzare qualcosa di estremamente disturbante.
La dinamica con cui gli host vengono posseduti per soldi, tramite l’installazione delle memorie di una persona deceduta, è una forma estrema di mercificazione del corpo. Il modo in cui viene affrontato un argomento così delicato non coglie la sua natura inquietante e, per l’appunto, distopica.
Il film tiene insieme a fatica la focalizzazione sull’interiorità del protagonista, e quindi sull’amore che prova per Zoe, e il tentativo approssimativo di mostrare le dinamiche di questa società futuristica, mantenendo un’atmosfera cupa e gelida. Il risultato è che entrambi gli approcci mancano l’obiettivo. Infatti, i momenti di intimità di Sal e Zoe finiscono per essere influenzati da quella freddezza che avviluppa il film, nonostante l’intenzione sia evidentemente quella di coinvolgere sentimentalmente lo spettatore.
Dall’altro lato l’eccessiva focalizzazione sulla loro relazione non permette al regista di sviluppare il discorso filosofico attorno ai temi più interessanti, limitandosi sostanzialmente all’uso dei colori metallici per trasmettere un senso di angoscia e rassegnazione, lasciando correre le tante contraddizioni e leggerezze.
Il cast stellare in cui spiccano due grandi attori come Gael García Bernal e Renate Reinsve non basta dunque a coprire le lacune evidenti di un film viziato da tanta superficialità, scelte sbagliate e personaggi spesso piatti e poco elaborati. L’inspiegabile quanto immotivato finale a effetto, che alimenta ulteriormente la confusione, è solo la manifestazione più evidente di un esperimento fallito.