E fase cinque sia. Con questo terzo capitolo del franchise dedicato all’uomo formica, il Marvel Cinematic Universe apre le porte a una nuova parentesi del suo arco narrativo e produttivo. Ora però, una domanda sorge spontanea: ma in cosa si differenziano, per davvero, tutte queste fasi?

Ant-Man and the Wasp: Quantumania (da qui in avanti solo Ant-Man 3) è infatti perfettamente riconducibile ai canoni della fase quattro e, se non fosse per lo storytelling incentrato nel delirante multiverso (elemento caratteristico proprio della fase appena precedente) o per l’introduzione di un nuovo villain che si appresta – speriamo – a restituirci i fasti del Thanos di Josh Brolin, allora potremmo tranquillamente collocare il film anche in anni ancor più lontani e contestualizzarlo in una delle prime tre fasi.

Questo perché, volenti o nolenti, i film del Marvel Cinematic Universe hanno scolpito un codice, sono diventati un “genere”. Vuoi per l’incombenza produttiva di mamma Disney, vuoi per il successo ottenuto in passato mescolando epica, humor e dramma, o vuoi per la guida pressoché unica di Kevin Feige il quale, da timoniere costante, riconduce i suoi lavori sugli stessi binari, risulta difficile notare un vero e proprio scarto tra singole pellicole o gruppi di tali. Così, Ant-Man 3 ha gli effetti speciali di Eternals, l’ironia de Guardiani della galassia, la sfacciataggine dello Spider-Man di Tom Holland, la potenza mefistofelica di Infinity War e la retorica familiare dei singoli Avengers.

In tal senso, l’MCU sembra essere l’incarnazione perfetta del labirinto di universi, immagini, personaggi e catastrofi che va raccontando nei suoi progetti. Tutto si mescola, tutto è possibile e nulla improbabile. Il multiverso è realtà oggigiorno. Lo dimostra tanto il progredire tecnologico e la spersonalizzazione della nostra identità su molteplici piattaforme, quanto il successo popolare che l’intrattenimento calato in questo contesto riscontra giorno dopo giorno (dal boom del mercato videoludico, al caso cinematografico dell’anno Everything Everywhere All at Once).

Così, Ant-Man 3 non si dimentica di dialogare con il passato (oltre alla presenza consolidata di Michael Douglas e Michelle Pfeiffer, “esordisce” qui anche Bill Murray), aprire le porte al futuro (Kang sarà il vero “protagonista” della prossima saga Marvel), intrecciare i suoi orizzonti con la serialità (si veda l’ultima scena post credits) e provare a trovare il gusto e il plauso degli spettatori abituati a frequentare la galassia Disney (cercate le differenze tra il regno quantico di Ant-Man 3 e l’universo portato in scena in Strange World – Un mondo misterioso: non ne troverete).

Se tutto quindi fila da un punto di vista progettuale e nell’ottica di un disegno più ampio, resta però indubbio che il film di Peyton Reed non riesca mai a interessare, sorprendere o incuriosire più di così. Tutto è piatto, tutto è prevedibile, tutto è già visto. Se il suo protagonista riesce ad adattare le sue dimensioni in un battibaleno passando da forme pachidermiche a microscopiche, la tensione evolutiva di Ant-Man 3 non è assolutamente all’altezza dimostrando di voler provare a concorrere nel campionato dei più grandi senza avere le gambe, lo slancio e la forma mentis (non solo muscolare) necessaria per farlo.

È solo grazie a Jonathan Majors che il film vibra un pochino. Quel tanto che basta per dare la spinta a non mollare la corsa, ad aspettare il prossimo tassello del mosaico con curiosità e fiducia, sperando che questa terza avventura dell’uomo formica sia stata solo una brutta traiettoria, tra le infinite, che il multiverso Marvel ha in serbo.