“Crocevia all’Eur. Esterno, imbrunire e sera”, con queste coordinate spazio temporali si conclude la sceneggiatura de L’eclisse (1962), il titolo introduce la lunga descrizione delle strade del quartiere romano. “A volte si fissa un punto…”, aggiungerei questa postilla che prende a prestito il titolo di una raccolta di disegni e brevi testi pubblicati da Michelangelo Antonioni nel 1992, sono passati diversi anni ma l’intento e soprattutto l’approccio con cui il regista ci restituisce il mondo circostante, filtrato attraverso la propria lente d’ingrandimento, non sembra essersi modificato, particolari apparentemente privi di rilevanza, una scatola di fiammiferi che galleggia in un bidone, stuoie di paglia e tubi Innocenti, pur rimanendo elementi di contorno acquistano di intensità perché spogliati di ogni significato simbolico.
“Un vicolo cieco. Case di mattoni anneriti. Un paio di persiane dipinte di bianco. Un fanale. Un tubo di grondaia verniciato di rosso, molto lucido. Una motocicletta coperta da un telo, perché piove”, queste parole che potrebbero essere state estrapolate dalla sceneggiatura de L’eclisse provengono invece da alcune riflessioni raccolte in A volte si fissa un punto…, qui Antonioni prosegue spiegando ciò che più gli preme: “Voglio vedere chi passerà per questa strada che ricorda Charlot. Mi basta il primo passante. Voglio un personaggio inglese per questa strada inglese. Aspetto tre ore e mezza. Il buio comincia a disegnare il tradizionale cono di luce del fanale quando me ne vado senza aver visto nessuno”.
L’immaginazione è messa a dura prova dalla realtà, questa, pur non assecondando le fantasie della visione, non va a intaccarne la libertà creativa che al contrario sembra uscirne rafforzata: “Io credo che questi piccoli fallimenti, questi momenti vuoti, questi aborti di osservazione, siano tutto sommato fruttuosi. Quando ne abbiamo messo insieme un bel po’, non si sa come, né perché, viene fuori una storia”, e aggiunge con tono quasi provocatorio, “il soggetto de ‘Il grido’ mi venne in mente guardando un muro”. (Michelangelo Antonioni, A volte si fissa un punto…, Catania 1992)
A questo punto siamo spinti a interpretare la scomparsa di Vittoria (Monica Vitti), protagonista de L’eclisse, vista per l’ultima volta fuori dall’ufficio di Piero (Alain Delon), come un pretesto utilizzato dal regista per mostrarci il percorso del suo sguardo con il quale adesso quello di Vittoria sembra coincidere. L’entrata in scena dell’occhio del regista e l’annientamento dello sguardo della protagonista avvengono quasi in sordina, indugiando sul percorso compiuto da Piero e Vittoria in quei giorni e in modo particolare soffermandosi a lungo sul luogo del loro mancato appuntamento, la sua esplicita sostituzione è svelata solo quando udiamo il suono “dei passi nella strada ormai avvolta nella penombra della sera”, ed ecco apparire “una testa bionda di donna: sembra Vittoria”. La fonte di quel rumore sordo è stata individuata ma il pedinamento ha avuto esiti sconcertanti: “La ragazza si volta: non è Vittoria”. (Michelangelo Antonioni, Sei film, Torino 1964)
Alain Robbe-Grillet, nel testo che possiamo leggere in A volte si fissa un punto…, partendo dal caso particolare del libro d’artista allarga il discorso ponendo le tavole disegnate in relazione all’intera opera di Antonioni: “Tutto, in quest’album, ruota intorno al volto che guarda, con un’intensità fissa, muta, un oggetto (di desiderio, d’incertezza o di stupore) posto fuori campo: sguardo intenzionale che si proietta su di un punto preciso del mondo – enigmatico – senza appropriarsene”.
L’etichetta di cinema dell’incomunicabilità, dell’alienazione “quella che va de moda oggi”, commentava con sarcasmo Vittorio Gassman nel film Il sorpasso (1962) a proposito della visione de L’eclisse, risulta essere una definizione superficiale e usurata dal tempo e viene duramente contestata da Robbe-Grillet che riconosce in questi film un “cinema dell’evidenza svelata”, in cui la comunicazione è “appassionata, passionale, infinitamente più concreta di tutti i dialoghi triti e verbosi che ingombrano i nostri schermi. Sulle rovine di questa pretesa comunicazione attraverso la parola, sotto i nostri occhi distratti si va costruendo uno scambio più intenso, più segreto, meno razionale e, al contempo, meno vano. (…) A volte, quando si fissa un punto (un oggetto, una persona), si diventa il punto in questione; e ciò che conta, è il movimento di passaggio verso l’altro. (…) E se ciò che ansiosamente aspetto è un oggetto assente, la mia attesa inappagata non sarà altro che irreale. Professione: reporter. Ormai è chiaro che si tratta di un reporter che non riporta nulla, che non porta nulla via con sé, che non commenta ciò che svela (…) E mentre intorno tutto scorre, rimanere immobile, come un sasso nell’alveo del fiume. La passione, l’amore immenso non sono né in me, né nella cosa guardata, il cui eventuale interesse è d’importanza relativa, ma esclusivamente in quest’attenzione, scevra da qualsiasi ingerenza o voracità, che le porto”.
Antonioni è un osservatore attento, gli elementi circostanti catturano il suo interesse confermando la propria vocazione di flâneur, “il verbo flâner, spiega il dizionario Larousse, significa ‘errare senza meta fermandosi spesso a guardare’. Il reporter, figura emblematica del cinema di Antonioni, può essere considerato l’ultima incarnazione del flâneur ottocentesco”. (Antonio Costa, Lo sguardo del “flâneur” e il magazzino culturale in Michelangelo Antonioni. Identificazione di un autore, Parma 1985)
Se la flânerie è oggi praticata da chi “guarda per professione” anche il regista, come il reporter e il fotografo, rientra in questa categoria, lo sguardo di Antonioni è quello di chi “vuole vedere chi passerà in questa strada che ricorda Charlot”, e se ne va ore dopo senza avere incontrato nessuno. Questi “aborti di osservazione”, come il pedinamento della ragazza conclusosi con la certezza che non si tratti di Vittoria, sono piccoli fallimenti che Antonioni pone all’origine dell’elaborazione di una storia; tornando alla sceneggiatura ci accorgiamo quanto sia chiaro nella descrizione del crocevia dell’Eur il suo metodo di indagine della realtà: “Una ragazza che aspetta qualcuno. La stessa ragazza più lontana. L’imbocco della strada dove la ragazza aspetta. Arriva un filobus, che incomincia la curva. Una ruota del filobus stride curvando. Il filobus si ferma. Scendono una signora e un uomo che legge ‘L’Espresso’. Il titolo della prima pagina è: ‘La gara atomica’. L’interno del giornale, che l’uomo sta leggendo, porta un altro titolo a lettere cubitali: ‘La pace è debole’. L’uomo si allontana. Dei bambini nel fondo giocano”.
Verrebbe da dire che il finale de L’eclisse non sia altro che la registrazione dello spazio urbano, il regista, e qui riportiamo le parole dello stesso Antonioni/reporter, si assume l’impegno di “cogliere una realtà che si matura e si consuma, e proporre questo movimento, questo arrivare e proseguire, come nuova percezione. (…) Le persone che avviciniamo, i luoghi che visitiamo, i fatti a cui assistiamo: sono i rapporti spaziali e temporali di tutte queste cose tra loro ad avere un senso oggi per noi, è la tensione che tra loro si forma”. (Il mio Antonioni, a cura di Carlo di Carlo, Roma 2018).
Ci siamo soffermati a lungo sulle parole di Robbe-Grillet sia perché fondamentali per il nostro discorso, ma soprattutto perché ci saremmo arrivati comunque per vie traverse seguendo le tracce disseminate lungo il finale de L’eclisse. Torniamo ai titoli degli articoli riportati su “L’Espresso” del 10 settembre 1961, così ben evidenziati da Antonioni, bastano pochi secondi per notare il titolo scritto a lettere cubitali in prima pagina, riportato anche in sceneggiatura, “La gara atomica”, seguito da “La pace è debole”, articolo di Antonio Gambino che sembra catturare maggiormente l’attenzione dell’uomo sceso dal filobus. L’attualità è messa in primo piano da Antonioni, “Kruscev aiuta il Pentagono”, sempre in prima pagina, viene da chiedersi se questo indugiare della macchina da presa sulle pagine de “L’Espresso” sia funzionale alla trama, ed è a questo punto che l’occhio cade su una fotografia di un uomo sorridente con gli occhiali, in basso a destra, ancora in prima pagina. Leggiamo “Camilla Cederna a Marienbad…où des couloirs interminables…”, l’uomo sceso dal filobus non arriva al reportage della Cederna sulla 22ª Mostra d’arte cinematografica di Venezia, durante la quale Alain Resnais, l’uomo intravisto in copertina, ha vinto il Leone d’oro. “...Où des couloirs interminables…” è infatti tratto dal testo “ripetuto fino alla follia dalla voce di Albertazzi” in L’anno scorso a Marienbad.
Andando a sfogliare, come l’uomo del filobus, quell’Espresso, prima di arrivare al resoconto del festival incappiamo nel servizio di Marialivia Serini, “Orson Welles gira Cervantes. Tre anni con Don Chisciotte”, corsi e ricorsi storici. “E così, nell’ultima notte, stupenda e tersissima, furono ancora tutti insieme in quell’allucinante Excelsior questi più o meno pittoreschi personaggi-chiave del festival, e gli appassionati del film vincitore (massima corrente: ‘o ti prende subito o ti lascia marmo’) andavano ripetendo in tono sognante a proposito di quest’albergo: ‘…le long de ces couloirs, à travers ces salons cet hôtel immense, luxueux, baroque, lugubre, où des couloirs interminables succédent aux couloirs (…)”.
Alla scena surreale dell’Excelsior scatenata da un’opera giudicata dagli spettatori come “quanto c’è di più stupendo e d’audacemente nuovo oggi nel campo del cinema oppure un film terribilmente vecchio, adatto a ritardati psichici o a duri d’orecchio dalle infinite ripetizioni di parole e di situazioni”, segue la repentina sparizione di Alain Resnais che si dilegua “imitando i suoi personaggi, a dissolversi garbatamente con l’alba come cancellato con la gomma”. Vale la pena riportare l’impietosa descrizione che la Cederna dà del regista: “Così, biondo, grigio e celeste, somigliante per metà a un seminarista di buona famiglia e per l’altra metà a Paperino, in tono sommesso Resnais mi dice che da anni conserva tra le sue cose più care la collezione dell’‘Avventuroso’ coi fumetti da lui tradotti in francese. Flash Gordon e Mandrake, sono i suoi personaggi preferiti”, ed è soprattutto quest’ultimo ad avere influenzato il suo film, “Per esempio, quando il signor X batte le mani e tutto sparisce, quello non è puro mandrakismo? Mitemente mi chiede”.
Analizzare la presenza/traccia di Marienbad nel finale de L’eclisse può essere fuorviante, in effetti Antonioni non sembra dargli particolare peso, lo spettatore è chiamato a mettere in moto quel lavoro dell’Immaginario di cui parla Robbe-Grillet (intervista raccolta in Caro Antonioni…di Gianni Masseroni, Rai-Bbc, 1995), il quale spiega che la sostanziale differenza, meglio l’opposizione tra percepire e capire, risulta fondamentale per comprendere “l’apertura del senso” del “cinema dell’Immaginario” di Antonioni: “Possiamo percepire con la massima precisione le orme di un animale nella neve, ma non capire di che animale si tratti. In ogni momento della nostra vita noi urtiamo contro tracce di questo genere e l’insieme di queste tracce è la percezione. (…) Dice Spinoza: ‘La mente è tanto più capace di immaginare quanto più percepisce e meno capisce’. (..) bisogna che la percezione diventi flagrante ma aperta a ogni genere di significati possibili: ed è là che l’Immaginario lavora”.
Nell’introduzione alla sceneggiatura di L’anno scorso a Marienbad, Robbe-Grillet ricorda l’incontro con Resnais e la comune volontà di girare un film in cui spazio e tempo risultino essere “puramente mentali” come accade nel sogno, con la memoria o nella vita affettiva, “senza troppo preoccuparsi per le connessioni tradizionali di causalità, né per una cronologia assoluta dell’aneddoto. (…) La nostra mente, in realtà, va più presto – o più piano, altre volte. La sua andatura è più varia, più ricca, e meno pacifica: salta passaggi, registra con precisione elementi ‘senza importanza’, si ripete, torna indietro. E questo tempo mentale è proprio quello che ci interessa, con le sue stupefazioni, i suoi vuoti, le sue ossessioni, le sue zone oscure, poiché è quello delle nostre passioni, quello della nostra vita”. (Alain Robbe-Grillet, L’anno scorso a Marienbad, Torino 1961)
Senza voler esagerare forzando a tutti i costi il discorso, insistiamo sulla rilevanza del messaggio subliminale intravisto nella prima pagina de “L’Espresso”, il percorso che compiamo sostando e attraversando il crocevia all’Eur, scandito dal tempo mentale del regista, è molto simile a quello del signor X (Albertazzi) in Marienbad : “Uno sconosciuto erra di sala in sala – piene, di volta in volta, d’una folla affettata, o deserte –, oltrepassa porte, s’imbatte in specchi, percorre interminabili corridoi. Il suo orecchio registra frammenti di frasi, a caso, qua e là. Il suo occhio passa da un viso senza nome ad un altro viso senza nome”. Lo spettatore, continua Robbe-Grillet, si lascerà trasportare da questo film “che non si rivolge ad altro che alla sua sensibilità, alla sua facoltà di guardare, di ascoltare, di sentire e di lasciarsi commuovere. (…) non appena egli accetti di sbarazzarsi delle idee bell’e fatte, dell’analisi psicologica, degli schemi più o meno grossolani di interpretazione che i romanzi o il cinema abitudinari e soddisfatti gli rifriggono fino alla nausea, e che sono le peggiori delle astrazioni”.
Chi non fa lo sforzo suggerito da Robbe-Grillet è ancora una volta Gassman ne Il sorpasso: “L’hai visto L’eclisse? (…) Io c’ho dormito. ʼNa bella pennichella. Bel regista Antonioni…c’ha ʼna Flaminia Zagato. Una volta sulla fettuccia di Terracina m’ha fatto allungà il collo”.