Archivio

filter_list Filtra l’archivio per:
label_outline Categorie
insert_invitation Anno
whatshot Argomenti
person Autore
remove_red_eye Visualizza come:
list Lista
view_module Anteprima

Episodi di noia in Visconti e Antonioni

L’episodio Anna da Siamo donne, quello francese dei Vinti e Il lavoro da Boccaccio ’70 sono accumunati dal tema della noia. I protagonisti sono guidati, nel loro agire, dalla ricerca di una distrazione. Altro aspetto che accomuna le tre opere è il fatto che tutte sono ispirate a fatti realmente accaduti, pur romanzati per esigenze cinematografiche. Alla sceneggiatura di questi film, inoltre, ha sempre collaborato Suso Cecchi d’Amico.

“Il grido” di aiuto ai margini del mito

La traiettoria del film potrebbe prevedere il protagonista come un nucleo e le vicende (ovvero i vari personaggi secondari) come episodi che gli orbitano attorno, mentre invece è proprio il contrario: ne Il grido si assiste a un satellite e a tanti cambi di orbita. Ci sono movimento e velocità (gare di pugilato e di motoscafi, locali da ballo, fabbriche che svettano come relitti della modernità e collettivi movimenti di protesta) eppure vengono sempre rifiutati, stanno in profondità, alle spalle della solitudine e del silenzio.

“L’avventura” del paesaggio. Monica Vitti e lo sguardo che si sente morire

“Pochi giorni fa all’idea che Anna fosse morta, mi sentivo morire anch’io. Adesso non piango nemmeno. Ho paura che sia viva. Tutto sta diventando maledettamente facile, persino privarsi di un dolore”, dice Claudia, la donna portata sullo schermo da Monica Vitti che in questa pellicola conquista l’impero dell’incomunicabilità di Antonioni, diventando regina dell’alienazione. Monica/Claudia sa essere paesaggio; il suo sguardo restituisce allo spettatore l’amarezza secondo la quale dietro ogni grandezza (il mare immenso delle Eolie, il barocco di Noto, l’Etna vista da Taormina) si nasconde un profondo vuoto.

“Cronaca di un amore” e il superamento della sintassi tradizionale

Di Cronaca di un amore Antonioni è anche autore del soggetto, mutuato dalla tradizione hard-boiled americana, James M. Cain in particolare, e dal caso giudiziario della Contessa Maria Pia Bellentani che uccise nel 1948 l’amante Carlo Sacchi. È, inoltre, co-autore della sceneggiatura, riscrive i movimenti della macchina da presa per innovare il linguaggio cinematografico, dirige gli attori, specialmente Lucia Bosè, con pugno di ferro, impiegando, nella sua stessa definizione “mezzi . . . meccanici e odiosi”; partecipa attentamente e scrupolosamente al montaggio. Secondo la testimonianza dell’aiuto regista Francesco Maselli, inoltre, Antonioni voleva pianificare anche la promozione del film, amareggiato dal rifiuto della Mostra di Venezia.

Cinema e pittura nella cultura emiliano-romagnola

Emilia-Romagna: regione di teatri, pittori e, quindi, di cinema. È pressappoco questo l’assioma che Renzo Renzi individua nel saggio Una terra di cineasti come giustificazione del gran numero di uomini di cinema nati tra Piacenza e Rimini. Se, da un lato, la tradizione teatrale emiliana, così fiorente da potersi esprimere oggi in ben centosedici teatri storici, ha modulato un imprinting di familiarità verso la dimensione drammaturgica in tutta la ricchezza delle sue componenti (scrittura, scenografia, attorialità), dall’altro è presente in Emilia Romagna un patrimonio pittorico che, come in poche altre regioni, si è espresso nel corso della propria storia in maniera variegata.

Antonioni a Marienbad

L’etichetta di cinema dell’incomunicabilità, dell’alienazione “quella che va de moda oggi”, commentava con sarcasmo Vittorio Gassman nel film Il sorpasso (1962) a proposito della visione de L’eclisse, risulta essere una definizione superficiale e usurata dal tempo e viene duramente contestata da Robbe-Grillet che riconosce in questi film un “cinema dell’evidenza svelata”, in cui la comunicazione è “appassionata, passionale, infinitamente più concreta di tutti i dialoghi triti e verbosi che ingombrano i nostri schermi. Sulle rovine di questa pretesa comunicazione attraverso la parola, sotto i nostri occhi distratti si va costruendo uno scambio più intenso, più segreto, meno razionale e, al contempo, meno vano. A volte, quando si fissa un punto (un oggetto, una persona), si diventa il punto in questione; e ciò che conta, è il movimento di passaggio verso l’altro”. 

Michelangelo Antonioni e i colori dei sentimenti

Analizzando l’opera pittorica di Michelangelo Antonioni, una ricerca costante svolta in parallelo all’attività di regista e ad essa molto più vicina di quanto si immagini, non possiamo non soffermarci sulle Montagne incantate, acquerelli e collage di dimensioni ridotte, pochi centimetri, in certi casi millimetri, ai quali il regista affianca gli ingrandimenti fotografici, dei veri e propri blow up, di alcuni particolari indagando lo spazio della composizione, i pieni e i vuoti, le peculiarità dei pigmenti del colore e della grana della carta. “Che colore hanno i nostri sentimenti?”, sembra chiedersi Antonioni, ma soprattutto, quanto il colore li influenza? Nell’intervista rilasciata nel 1964 a Jean-Luc Godard, a proposito di Il deserto rosso, il regista parla di psicofisiologia del colore, portando come esempio un curioso aneddoto: l’interno della fabbrica durante le riprese è stato dipinto di rosso e questo ha provocato delle liti tra gli operai, presto placate da una mano di verde chiaro. 

Il mondo con lo sguardo altrui: “Blow-up”

Su Blow-up tutto si è detto e tutto si dirà. E sotto le tante parole spese in mezzo secolo germoglia sempre il seme di una consapevolezza: che in fondo di questo film fondato sul mistero sappiamo soltanto ciò che sceglie di rivelare. Il resto è congettura, un’elucubrazione, pura teoria. Una scatola cinese, un gioco di specchi, una simulazione. Blow-up è una menzogna che ci obbliga a ricercare la verità perduta, nascosta, sommersa sotto ed oltre quella rivelata. Chiede di farlo per altri occhi, imponendoci di imparare a guardare il mondo con lo sguardo altrui.

“Blow-Up” e la critica

La Cineteca di Bologna porta il restauro di Blow-Up nelle sale italiane, nell’ambito del progetto Il Cinema Ritrovato al cinema, a 50 anni dalla Palma d’Oro del 1967. Occasione per discutere di un film che non ha mai smesso di affascinare gli spettatori e che si è prestato, come tutti i capolavori, a letture differente e persino fraintendimenti. La ricostruzione della ricezione critica non può che essere un punto di osservazione privilegiato. Dalla rassegna stampa italiana e francese d’epoca conservata negli archivi della Cineteca, troviamo per esempio l’accoglienza a Cannes 1967 e l’esordio del film nelle sale italiane e francesi.

Venezia Classici 2017: “Il deserto rosso”

Fin dalle sequenze e inquadrature d’esordio, Antonioni sottende un parallelismo tra due vicende, quella della giovane Giuliana e del divenire – che, in realtà, è più un involversi che evolversi – della borghesia italiana settentrionale. L’espressione di Monica Vitti è il volto dell’angoscia di Giuliana, sentimento inteso nei termini di una destabilizzante vertigine nei confronti delle infinite possibilità dell’esistenza: non c’è data una spiegazione rispetto alle ambiguità umorali della donna, se non per la menzione a un incidente che l’avrebbe poi rinchiusa in una clinica.

Cinema Ritrovato 2017: ancora su “Blow Up”

Restaurato da Cineteca di Bologna, Istituto Luce, Cinecittà e Criterion, in collaborazione con Warner Bros. e Park Circus presso i laboratori Criterion e L’Immagine Ritrovata, con la supervisione del direttore della fotografia Luca Bigazzi, presentato alla settantesima edizione del Festival di Cannes, in occasione dei cinquant’anni dalla vittoria della Palma d’Oro, Blow Up di Michelangelo Antonioni è anche uno degli appuntamenti con cui si chiude il Festival del Cinema Ritrovato.

Cinema Ritrovato 2017: “Blow-up” tra jazz e Swinging London

“Il nostro mondo più funesto apparirà, e sarà caro il disinganno quando tutto crollerà.” Riflettere su un classico del cinema contemporaneo come Blow-up partendo dal primo verso di una canzone dei Baustelle potrebbe apparire azzardato e indubbiamente anacronistico. Eppure Maya colpisce ancora, cattura alla perfezione quel senso ineluttabile per cui la percezione del reale è del tutto illusoria e la verità inafferrabile, che si coglie anche nel film di Antonioni. Un film in cui l’illusione, o la disillusione di realtà presente, è messa in atto attraverso richiami precisi tra cui la musica stessa.

“Blow-up” a Cannes, cinquant’anni fa

Un grande restauro per festeggiare i 50 anni del Grand Prix (così si chiamava allora la Palma d’Oro) vinta da Blow-up al Festival di Cannes nel 1967: la versione restaurata del film di Michelangelo Antonioni.

Tra moda e reportage: Blow Up di “Blow Up”

 

Il documentario Blow Up di ‘Blow Up’ è stato realizzato da Valentina Agostinis dopo l’uscita del suo libro Swinging City, entrambi sono un ritratto della Londra degli anni ’60, una città che non lascia indifferente Michelangelo Antonioni, conosciuta nel ’65 quando Monica Vitti girava Modesty Blaise, quella swinging London che ha come protagonisti “i giovani artisti, i pubblicitari, coloro che fanno tendenza, gli stilisti, i designer e i musicisti, tutti influenzati dal movimento pop”, come spiegherà il regista in un’intervista ai Cahiers du Cinéma, sono i rappresentanti di questa rivoluzione culturale portatrice di innovazioni di ogni tipo, prima fra tutte la fotografia, a incuriosirlo e a divenire l’anno seguente il soggetto da cui prende forma Blow-up.