Cosa accade alle periferie delle nostre città quando il soffocante caldo estivo costringe gli abitanti a spostarsi verso luoghi più vivibili? Rimangono delle vuote scatole di cemento, roventi come fornaci e apparentemente inanimate. Eppure, soffermandosi su questi torridi deserti urbani si possono scorgere degli sguardi malinconici, volti rigati dal sudore e provati dall’afa, persone che rimangono come unici abitanti di questi luoghi in quanto prive della possibilità di andarsene. Sono figure ammantate di malinconia che si aggirano per i baretti del quartiere rimasti aperti, in cerca di refrigerio o di un contatto umano che possa intaccare il sarcofago invisibile che li avvolge. Il regista Fabio Donatini si inserisce in questo mondo, cercando di infrangere la barriera di silenzio che cela questi personaggi per portare alla luce le loro storie. Ciò che ne emerge è un mosaico di traumi personali, diversi tra di loro ma con un esito comune: la solitudine.
Mai sottolineato in maniera eccessivamente smaccata, è questo il trait d’union di tutte le testimonianze, intrecciate sullo schermo grazie al minuzioso lavoro del montatore Nicola Spaccucci, ma ben distinte nella realtà. Un’indagine su delle situazioni di disagio che però non assume mai lo sgradevole sentore di una pornografica esaltazione della sofferenza. Lo sguardo applicato dal regista bolognese (affiancato da Antonello Grassi in fase di elaborazione del soggetto) mantiene una garbata distanza che permette di percepire questa intromissione nella sfera personale dei protagonisti come un atto genuinamente interessato e spoglio di qualsiasi piacere voyeuristico; partecipazione e non violenta incursione. I volti che siamo portati a conoscere sono quelli di Patrizia, Reza, Zio, Armando e Andrea; persone che abitano il quartiere di San Donato per tutto l’anno, ma che nei cocenti mesi estivi sono tra le poche anime che quotidianamente si muovono tra i muri di una Bologna che pare sospesa in un limbo atemporale.
Tra ludopatia, problemi di dipendenza e travagliati rapporti famigliari, queste persone si consegnano alla macchina da presa in tutta la loro fragilità psicologica riuscendo a restituire, oltre ad un’inevitabile irrequietezza, anche delle infinite sfumature emotive, semplici e colorate, che spiccano in un ambiente reso dalle inquadrature sporche e contemplative del regista ancora più desolato di quanto già non sia in realtà. Perché San Donato Beach è certamente uno spaccato realistico di un contesto borderline, ma è anche sublimazione dello stesso tramite una ricercata distorsione dell’ambiente cittadino. San Donato non è quindi solo il luogo in cui collocare geograficamente gli incontri mostrati nel film, ma diviene una componente fondamentale per la definizione del tono generale dell’opera. Il quartiere genera un’atmosfera che, grazie anche ad un’imprescindibile selezione musicale in accompagnamento, riesce ad alleggerirsi ed incupirsi a seconda dei contenuti su cui ci si sta soffermando e a sua volta contamina il comportamento e le sensazioni degli interlocutori. L’ambiente urbano, manipolato dall’autore secondo le proprie esigenze, diviene quindi un ulteriore – forse il principale – personaggio di questo documentario scaturito non tanto da una razionale volontà di indagine antropologica, quanto più da una recondita esigenza di contatto umano.
Nella sua modesta (e onesta) fattura, San Donato Beach racchiude degli sprazzi di intensa bellezza; la capacità di sfruttare le ferite e le piaghe dolorose dei protagonisti per insinuarsi nelle loro anime e rinvenirvi qualcosa di inaspettatamente gratificante. Un fascino amaro, strano e malinconico, proprio come quello esercitato dal profilo della periferia bolognese in pieno agosto: così arido e squallido ad uno sguardo superficiale, ma animato invece da una vitalità nascosta, mansueta eppure pregna di sentimenti e storie che aspettano solo di essere ascoltati.