Nel 2001 Francis Ford Coppola rimise mano al film della sua vita per integrarvi ben cinquantaquattro minuti di girato omessi nell'originale versione cinematografica, in accordo coi distributori preoccupati che durata e stranezza eccessive potessero nuocere al successo di pubblico. A vent'anni dall'uscita nel 1979, quando per inciso incassò centocinquanta milioni di dollari, Apocalypse Now era, più che un classico, pura mitologia, e ora con Redux veniva fuori che quel film già sconfinato non era neanche tutta la storia.

Meglio l'originale del '79, più ellittico ma anche decisamente più energico, o le affascinanti divagazioni del nuovo cut col suo polso torpido, a venti battiti al minuto? Qual era il migliore Apocalypse Now? La diatriba andò a ingrossare la mole di questioni sollevata nei decenni dal film un po' com'era successo a Blade Runner, ma se in quel caso si tratta di un aut aut, campale scontro ideologico fra prerogative d'autore e interventi di produzione, l'operazione integrativa di Coppola si poneva invece in perfetta continuità con lo spirito di opera aperta del suo capolavoro, un film con un finale girato tre volte, con due autori ("mi dicono - come ti è venuta l'idea del Napalm, le Valchirie, le Playmate?- Non sanno che è tutto John Milius.") o forse più se contiamo la fotografia di Storaro e il sound design di Richard Beggs, entrambi premiati agli Oscar; e con una portata extra-filmica tale da prendere a sua volta vita cinematografica in A Filmaker's Apocalypse, documentario di Eleanor Coppola del 1991.

Come entra in questa storia la versione del 2019 denominata Final Cut, presentata dal regista in anteprima europea al Cinema Ritrovato? "Quella del '79 continuava a sembrarmi troppo breve e Redux iniziava a sembrarmi troppo lungo. Una via di mezzo poteva essere la soluzione". In realtà, l'impressione non è tanto quella di una "via di mezzo" quanto di una versione light, appena un po' più snella, del mastodonte del 2001. Le integrazioni ci sono tutte, dal colloquio iniziale di Willard alla scena in cui Kilgore/Duvall perlustra il fiume Nung chiedendo al megafono che gli sia restituita la sua "bella tavola", dall'incontro con una tigre al lungo monologo di Kurtz, fino al segmento coi relitti francesi della guerra in Indocina che completa l'Odissea fondendo insieme Lotofagi, Calipso e Circe.

Si può concordare con le parole di Coppola e trovare in Final Cut il compromesso perfetto, o al contrario pensare che questo terzo montaggio non dia nè la soddisfazione immersiva dell'originale nè la trance da saturazione totale di Redux, da cui elide esattamente 20'. Chi ritiene concettualmente possibile una media ponderata di Apocalypse Now ha la versione da guardare d'ora in poi. Se non è così, Final Cut riveste comunque valore per il solo fatto di essere l'ennesima tappa di un viaggio infinito, nonché per l'attenzione che potrà riportare sul suo autore - in quell'anno e mezzo nelle Filippine più potente di Hollywood, di Kurtz, di quanto un regista sia mai stato e forse mai sarà - nella speranza di un grande ritorno. 

Dimagritissimo e senza l'iconica barba, Coppola ha tenuto la piazza con quella sua aria di apparente normalità che rende ancora più misteriosi lo spettacolo successivo e la storia della sua genesi. "Capisco meglio i miei film quando li guardo con un grosso pubblico" ha detto; "ci riporta alle origini dionisiache del dramma, quando prima si ballava nell'ebrezza e poi ci si staccava dal gruppo dei danzatori per osservare da lontano". Sa benissimo che fra pochi minuti il Dioniso del '900 - il suo compagno di corso alla UCLA Jim Morrison - aggredirà il primo verso di The End proprio mentre il Napalm incendia lo schermo, e che tenersi a distanza sarà come sempre impossibile.