Terzo capitolo della saga cinematografica diretta e interpretata da Kenneth Branagh e dedicata alla figura del celebre Hercules Poirot, Assassinio a Venezia, a cominciare dal titolo, mette subito in chiaro subito le intenzioni del suo regista. Se infatti i primi due episodi, Assassinio sull’Orient Express  (2017) e Assassinio sul Nilo (2022) provarono a trasporre in maniera piuttosto fedele i romanzi nati dalla penna di Agatha Christie, qui lo spunto di partenza viene trattato come tale, un canovaccio al quale ispirarsi per poi prendere le mosse in maniera più autonoma.

Il testo di partenza, infatti, si chiama Poirot e la strage degli innocenti (Halloween’s Party nella versione originale) e non è ambientato a Venezia, ma nella campagna britannica. Diventa quindi evidente quanto l’intenzione non sia quella di un semplice adattamento cinematografico, ma piuttosto la ricerca di una coerenza narrativa in grado di poter alimentare un percorso filmico intrapreso sei anni fa.

La sfida si fa stimolante anche perché, a guardare bene, il passaggio risulta chiaro e preciso: mantenendo intatta la struttura del classico whoddunit, il primo capitolo era ambientato nelle gelide steppe d’oriente, dove il clima teso e rigido restituiva la ferocia e il cinismo di un omicidio spietato; il secondo film invece si basava su un delitto dettato dalla passione amorosa, e infatti il calore delle relazioni tra i personaggi era evidente nelle temperature torride presenti in Egitto.

Così, dopo un caso matematico e uno più dettato dall’imprevedibile emozione, arriva la terza sfida per Poirot, quella più complessa: fare i conti con il metafisico, l’imponderabile. Sarà la prova più ardua da superare, il caso più spinoso da risolvere, quello dove il detective si troverà maggiormente in difficoltà perché non potrà (o non vorrà?) letteralmente credere ai suoi stessi occhi.  

Eppure, al di là dei limiti piuttosto evidenti di questo progetto (una scrittura confusa, frettolosa, che non riesce mai a ingabbiare o incuriosire il pubblico; un cast poco amalgamato con cui diventa difficile empatizzare; una Venezia lasciata volutamente in disparte ma che quindi stenta a diventare un palcoscenico memorabile e interessante con il quale interagire – miracolo del lavoro di location scouting, il film sarebbe potuto essere ambientato in qualsiasi altra città, la magia e il fascino esoterico della Laguna non sono mai protagonisti), che comunque non guastano la confezione di un prodotto mainstream pensato per intrattenere e divertire il grande pubblico, ciò che maggiormente dispiace constatare di fronte ad Assassinio a Venezia è che a all’ottima spinta propulsiva sul piano creativo e di coerenza con la saga, non corrisponda un altrettanto attento lavoro di messa in scena.

L’eccessiva centralità di Branagh si avvertiva già nei primi episodi, non è di certo una novità. Qui però emerge in maniera troppo evidente quanto l’unico a divertirsi sia proprio il regista stesso. C’è uno scollamento importante tra l’ambizione potenziale del film e la resa sul grande schermo. Branagh si aggrappa in maniera ferrea a un immaginario antico, superato, con inquadrature insistentemente oblique, tagli di luce che vorrebbero rimandare ai misteri delle sedute spiritiche o primi piani mirati a inchiodare i personaggi come fossero streghe da condannare al rogo medievale (a tal proposito, si veda la caratterizzazione di Michelle Yeoh).

Non c’è mistero, non c’è dubbio, non c’è tensione nello sguardo del film. Tutto resta calcolato, svelato, evidente. Eppure è il suo stesso protagonista a vivere la crisi dell’incertezza, a dubitare della sua stessa fede scientifica, a lasciarsi inghiottire da una città che con le sue maschere e la sua tradizione ammalia turisti proprio in nome di un fascino da scoprire. Branagh regista, insomma, lavora in una maniera completamente distante da Branagh attore, contribuendo così ad alimentare un cortocircuito penalizzante per la riuscita dell’operazione. Peccato, poteva davvero diventare una saga più completa e interessante, ma si deve invece accontentare di restare un guilty pleasure al quale non risulta poi così difficile resistere.