Attenberg, diretto da Athina Rachel Tsangari, è una delle pietre miliari della Greek Weird Wave, corrente che riunisce molti dei lavori del cinema greco degli anni 2010. Un nome, quello del nuovo cinema greco, che è spesso associato a quello di Yorgos Lanthimos, che con i suoi primi lavori, quali Kynetta, Alps e Kynodontas (di cui Tsangari è produttrice) ne è rappresentante di spicco, e che in Attenberg smette i panni di regista per spostarsi davanti alla macchina da presa.

Tratto comune di questo cinema è una rappresentazione della realtà spesso paradossale e metaforica, filtrata dallo sguardo di personaggi caratterizzati da una profonda alienazione, che si esprimono attraverso dialoghi assurdi e un uso peculiare del corpo. E a tutto questo fa da sfondo una Grecia svuotata della sua bellezza più patinata, lontana dai fasti della stagione turistica, in cui la crisi individuale è prima di tutto sociale e politica.

In Attenberg lo sfondo è dato da una cittadina in cui il paesaggio industriale si confonde con un asettico litorale costiero, in cui Marina (Ariane Labed, Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile a Venezia 2010) vive accudendo il padre, malato terminale di cancro, lavorando come autista per i turisti e passando il tempo con la sua migliore – e unica – amica, Bella.

La relazione di Marina con il padre e con Bella si estrinseca attraverso l’imitazione dei gesti e delle movenze degli animali dei documentari di David Attenborough che guarda insieme al padre (e Attenberg è proprio una storpiatura del nome), da cui, presumibilmente, la ventitreenne ha imparato la biologia dei comportamenti e delle interazioni umane, in una buffa quanto a tratti sagace sovrapposizione tra gli esseri umani e gli altri mammiferi.

La volontà di creare un parallelismo tra gli atteggiamenti di Marina e quello degli animali dei suoi documentari è evidente fin dalla scena iniziale, in cui la telecamera inquadra, fissa, un lungo, grottesco bacio tra Marina e Bella, in cui le lingue si incontrano e si attorcigliano, e proprio nelle parole di Marina, la lingua è “come una lumaca. È disgustoso”.

È solo il primo dei tanti siparietti che costellano il film, creando degli intermezzi che mostrano proprio quell’imitazione del mondo animale che Marina, grazie all’esempio paterno, ha fatto suo. Anche le coreografie, in cui i corpi si muovono rigidi e rigorosi, seguendo senza scioltezza dei passi ben precisi, comunicano la stessa sensazione di giocosa recitazione e di impostata rigidità, una condizione da cui il corpo di Marina sembra non voler uscire, per un rifiuto infantile di abbandonare il proprio guscio e conoscere – dal vivo – il mondo circostante.

E infatti, Attenberg, è, dopotutto, un coming-of-age in cui la giovane Marina si affaccia, con apparente riluttanza, al mondo degli adulti, di cui la tappa del sesso è un elemento fondamentale. Le fa da contraltare, e da mentore, la figura più esperta e disinibita di Bella, che, nelle parole di Marina, è una predatrice in grado di conficcare gli artigli negli uomini – compreso il padre di Marina, Spyros – e con cui Marina ha un rapporto di amore/odio che, da un lato, ricalca gli stereotipi di rivalità e competizione femminile, mentre dall’altro rappresenta un’amicizia attraverso cui Marina esprime le sue insicurezze e le sue pulsioni nel modo più crudo e spontaneo possibile.

E un momento significativo è quello in cui Marina chiede a Bella di avere un rapporto sessuale con il padre morente, suggellando in modo simbolico la sua amicizia e l’inosservanza delle convenzioni sociali. Altrettanto singolare, quanto profondamente commovente, è la relazione che lega Marina al padre Spyros (Vangelis Mourikis), in cui di nuovo il riferimento al mondo animale è presente in maniera prorompente.

Marina e Spyros si cimentano in giochi linguistici che si tramutano poi nell’imitazione dei versi degli animali, e dei mammiferi replicano i tabù legati alla sfera familiare, come quando Marina dice al padre che “preferisce immaginarlo come un uomo senza pene”, dopo avergli chiesto se l’ha mai immaginata nuda.

Ma Spyros simboleggia anche il tramonto di un’epoca, e infatti è attraverso i suoi occhi, e le sue parole, che Tsangari dà voce alla critica sociale sul suo Paese: “Abbiamo costruito una colonia industriale su un recinto di pecore e pensato che stavamo facendo la rivoluzione”, afferma dal terrazzo dell’ospedale, di fronte a una distesa di case bianche che si estende a perdita d’occhio. E le sue parole diventano ancora più incisive se lette con la consapevolezza della crisi che da lì a qualche anno avrebbe devastato la Grecia: “è come se stessimo calcolando con matematica precisione la catastrofe finale”.

Di fronte all’amara disillusione paterna e alla consapevolezza del mondo che sta lasciando a Marina, la ragazza risponde con una, seppur non manifesta, spinta verso il futuro, giocosamente interpretata da Spyros come espressione di un ottimismo borghese che, in fin dei conti, è quello che serve per andare avanti.

E tale spinta si concretizza con l’arrivo di uno dei turisti (che non ha nome, ed è interpretato da Yorgos Lanthimos) con cui Marina ha le prime esperienze sessuali. Ancora una volta, sesso e morte diventano due tappe fondamentali per raggiungere l’età adulta: l’uccisione dell’infanzia, per Marina, corrisponde proprio alla morte del padre, unico genitore, e il sesso spalanca la porta alle prossime tappe di un futuro che, per quanto non roseo – nei toni, e nei colori, sempre grigi e spenti, del paesaggio – è comunque lì ad aspettarla.

Attenberg conferma l’aforisma secondo cui “l’arte non consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentarle con novità”: a più di dieci anni di distanza dalla sua uscita, il film di Athina Rachel Tsangari si dimostra un racconto di formazione con una potenza visiva e una forza narrativa che esula dai limiti del filone di appartenenza per mantenere inalterata la sua bellezza.