Lasciamo per un attimo da parte lo sguardo critico associato al giudizio e proviamo a osservare Augure – Ritorno alle origini (da qui in avanti solamente Augure) come un alieno, un oggetto difficilmente classificabile in grado però, anche per via di questa sua stessa natura, di risultare una spia puntualissima e millimetrica della condizione cinematografica contemporanea. Il film racconta la storia di Koffi, un uomo in viaggio per tornare in Congo con lo scopo di presentare la sua compagna alla famiglia d’origine.

È un ritorno complicato: volato in Europa quindici anni prima, nel suo villaggio è considerato uno “zabolo”, uno stregone, e guardato con diffidenza da tutta la comunità. Lo spunto di trama, che ha ben poco di innovativo o originale, è solo un pretesto. Da queste poche righe si può già intuire quanto Augure sia un film che voglia mettere al centro della propria indagine tematica l’identità. Per centrare l’obiettivo, il suo regista lavora in maniera parallela e coerente su molteplici aspetti.

Innanzitutto Baloji, nella lingua swahili, significa “stregone” o addirittura “stregone che può prendere i poteri di tutti gli altri stregoni”. Semplice rimarcare quindi una certa vena autobiografica nel progetto, denotando come il tema del ritorno e della ricerca identitaria sia presente nelle intenzioni dell’autore. Come se non bastasse, per chi non lo conoscesse, stiamo parlando di un esordiente che ha alle spalle però un percorso più che poliedrico: è infatti un artista pluripremiato, musicista, direttore artistico e designer di costumi per la moda e altre forme di espressione visiva. Ma non finisce qui, anche la produzione di Augure rimarca questa natura sfaccettata e poliedrica, dato che è composta da differenti soggetti e Paesi (Belgio, Congo, Olanda, Germania, Sud Africa).

Date tutte queste premesse, non deve quindi sorprendere il fatto di trovarci dinanzi a un film disorientante, ambizioso nel suo sguardo, con uno stile in perenne mutamento. Le tematiche che emergono dal racconto sono diverse: si va dall’appartenenza alle proprie origini sino al colonialismo, passando per il razzismo, il patriarcato ancestrale, l’invadenza dei rituali religiosi, la difficoltà di far conciliare la tradizione al proprio percorso individuale etc. Ma è l’identità, in tutte le sue forme, in tutte le sue sfaccettature, la vera protagonista di Augure.

Un progetto pieno di cicatrici (sia fisiche che emotive) poiché costituito da più componenti “costrette”, purtroppo o per fortuna, a convivere in nome di un progetto unitario. Proprio come i mestieri di Baloji. Proprio come i paesi in seno alla produzione del film. Proprio come la famiglia di Koffi. Proprio come il cinema più contemporaneo, labile, fluido, inclassificabile e assimilabile al feed di una bacheca social.