È naturale che per il suo debutto al cinema Aldo Fabrizi decida di puntare sul sicuro, anche per non sprecare l’occasione offertagli in piena guerra (siamo nel 1942) dal produttore Peppino Amato. L’attore romano prende quindi le redini della situazione: si cuce addosso una sceneggiatura che gli permetta di rielaborare uno dei ruoli tipici dei suoi spettacoli degli anni trenta (il bigliettaio sul tram) e che valorizzi le sue ammirate e comprovate doti recitative, per farsi poi guidare dall’occhio del più esperto Mario Bonnard. Eppure non si può, nel lodare la buona riuscita del film, tralasciare l’apporto alla sceneggiatura di un giovane Fellini (accreditato come “Federico” nei titoli di testa), che proprio l’amico Fabrizi volle al suo fianco nell’operazione: il tocco felliniano è ben visibile nel tono generale del film che, pur centrato sulla presenza scenica di Fabrizi e sulla sua prorompente vitalità, si lascia infondere di incredibile dolcezza sfiorando la malinconia.

Cesare Montani, innamoratosi di una ragazza (Adriana Benetti) alla quale hanno rubato soldi e documenti a bordo del filobus sul quale l’uomo era in servizio, non è una statica figura bidimensionale ma un personaggio che evolve, fa i conti con dei sentimenti che stupiscono per primo lui stesso e tuttavia decide di anteporre il bene di Rosella al proprio desiderio, in un finale struggente (impagabili quelle lacrime di Fabrizi) ma forse inevitabile. Un cammino speculare a quello compiuto dal personaggio di Fabrizi spetta invece a Bruno (Andrea Checchi), amico e collega di Cesare e altro vertice del triangolo amoroso: da incallito dongiovanni incurante dei sentimenti altrui, egli finisce per “rinsavire” per amore, anche se di primo acchito nemmeno lo spettatore più smaliziato ci crede. Rosella, personaggio non particolarmente approfondito a livello psicologico, si configura così come il punto focale verso cui convergono i percorsi evolutivi dei due uomini. Ella riveste quindi più una funzione drammaturgica che non narrativa.

Ma è proprio nella relazione con la ragazza, in quell’accudimento, in quella tenerezza un po’ paterna, che Fabrizi si produce in una gamma di espressioni facciali, di intonazioni verbali, di movenze aggraziate che sorprendono lo spettatore, non più di fronte alla maschera più tipica di Fabrizi ma ad un uomo reale che ha anche quel tanto di femmineo e quel tanto di infantile ma nulla di macchiettistico. Tutto ciò, beninteso, senza trascurare la verve comica della sua recitazione: il contrasto tra il suo essere succube delle figure di potere (il superiore, la padrona di casa) e i tentativi di ribellarsi alle ingiustizie, o comunque le sue reazioni alle situazioni in cui si ritrova, producono delle gag veramente divertenti (lo schiaffo dalla padrona di Rosella, la chiusura della porta, ma soprattutto la mitica scena della prova d’orchestra), che continuano a dimostrare l’insita inadeguatezza di Cesare alla società e quindi a giustificare la sua sorpresa quando inizia a credere che Rosella ricambi i suoi sentimenti.

Quando Bruno, con la chiamata alle armi in qualità di carrista, viene investito del ruolo di combattente per la Patria nella guerra d’Africa, la sua competizione con Cesare non è più paritaria perché ora l’uomo viene a ricoprire un ruolo sociale e narrativo di tutt’altro spessore. È quindi propagandisticamente corretto che abbia accanto – seppur a distanza – Rosella. Pur se si comprende a livello razionale la scelta che determina la conclusione della storia, è difficile non sperare fino all’ultimo che Cesare coroni il suo sogno di matrimonio, perché l’evoluzione del suo carattere, il suo affetto per la ragazza, il suo farsi in quattro per lei lo hanno reso, anche ai nostri occhi, bellissimo.