È Umberto Eco in L’innovazione nel seriale (1984) a chiamare in causa per la prima volta il concetto di “famiglia” (o meglio di “genealogia”) per parlare di serialità, individuando nella dimensione famigliare uno dei caratteri centrali della tipologia da lui definita saga. Avatar – La via dell’acqua, secondo tassello di un mosaico narrativo che secondo le aspirazioni dovrebbe comporsi di cinque film, sembra proiettare la creatura di James Cameron proprio verso la saga così come indicata da Eco, ovvero il racconto a puntate del decorso storico di una genealogia di personaggi.

Ma andiamo con ordine: questo sequel ha avuto l’arduo compito di riaprire la storia di un film spartiacque, che rappresenta un importante punto di riferimento per motivi che vanno anche al di là del successo e dell’impatto sull’immaginario collettivo. Non tutti infatti sanno che Avatar (2009) e il suo 3D sono stati fondamentali per accelerare il processo di digitalizzazione delle sale cinematografiche ed è quindi un titolo a cui in parte dobbiamo la fruizione che facciamo oggi dei film in sala.

La via dell’acqua è un caso di studio non meno interessante, dato che è il frutto di uno degli investimenti produttivi più ambiziosi della storia, che ha visto la lavorazione in simultanea di ben cinque film, e che non solo ha il compito di riaprire una storia chiusa tredici anni fa, ma anche di dare a questo ritorno un senso su più livelli: estetico, tecnico e narrativo.

Se a livello estetico la filosofia è ancora quella di un cinema che sia esperienza di meraviglia e che riesca a riproporre, tramite le sue prodezze tecniche, un effetto di sbalordimento sul pubblico non troppo diverso da quello proposto dai mondi fantastici di Georges Méliès nel cinema delle origini, a livello narrativo le cose si fanno più complesse. Cameron non realizza un remake del primo film, ma introduce nuove tematiche e nuovi equilibri. Il film è ambientato molti anni dopo il precedente, scelta intelligente considerato il lungo tempo trascorso tra l’uscita del primo e questo sequel. Il protagonista del primo film, Jake Sully (Sam Worthington), perde centralità in favore dei nuovi personaggi, i figli che ha avuto insieme a Neytiri (Zoe Saldana), personaggi che si impongono subito nella narrazione e che si rivelano immediatamente molto interessanti e in grado di reggere sulle proprie spalle l’intera pellicola.

Avatar – La via dell’acqua sposta l’attenzione dalla prospettiva generale ed epica del primo film (la guerra per la sopravvivenza dei Na’vi) alla dimensione più particolare e intima di questo sequel, in cui al centro della storia c’è il concetto di famiglia, tanto caro al cinema di Cameron. Tutti i personaggi hanno a che fare con l’idea di famiglia, non solo i buoni, ma anche il villain interpretato da Stephen Lang, che in questo sequel acquisisce, insieme ad un character design diverso, anche una maggior profondità rispetto alla pellicola del 2009.

Tornando a Eco, l’impressione che si ha nel vedere agire sullo schermo questa seconda generazione di personaggi, ognuno con una propria caratterizzazione e un proprio ruolo narrativo, è che l’obbiettivo della saga di Cameron sia quello di raccontare nel corso degli anni una sorta di passaggio di testimone. Si percepisce chiaramente sullo schermo l’intenzione di Cameron di rendere Avatar una lunga saga famigliare, come da lui esplicitamente dichiarato qualche anno fa. È tipico delle grandi saghe statunitensi sviluppatesi dalla New Hollywood ad oggi riflettere sul concetto di genealogia – e più in generale di discendenza – ed utilizzarlo per srotolare una narrazione lungo numerosi film (si pensi a Star Wars, Il padrino, Terminator, Rocky,…) ed è quindi un elemento coerente con quello che, possiamo dirlo, sembrerebbe essere il proposito di James Cameron e della Disney: rendere Avatar uno dei franchise più importanti del cinema contemporaneo, che possa scrivere, perlomeno per l’esperienza produttiva che offre, un pezzo di storia del cinema. Riuscirà nel suo intento?