L’universo di Avatar è costruito su un grande paradosso. Lo incarna la figura che dà il titolo al film: un essere umano in un corpo alieno, fusione impossibile tra realismo antropomorfico e potenzialità tecnologica. Il kolossal di James Cameron è come la creatura di cui racconta, uno spettacolo “irreale” ma tangibile, che dietro alla dimensione ambientale, creata con la strabiliante precisione del digitale, ne sottintende un’altra dalle aspirazioni umaniste, come quelle delle grandi narrazioni popolari.
Sta qui il senso della Pandora di Cameron, che aveva fatto con il film originale, a oggi l’incasso più alto di sempre, un’opera futurista di epica classica, tanto moderno nella forma quanto tradizionalista nell’impianto narrativo. La componente umana rappresenta la parte meno interessante del primo Avatar, ma non la si può considerare separatamente dall’apparato figurativo, che rinforza il racconto e ne compensa le limitazioni: quello di Cameron, in effetti, è un cinema dove stile e sostanza coincidono già nel concetto di base.
Nell’affrontare la medesima ambivalenza, Avatar - La via dell’acqua porta il discorso a un livello successivo. Al di là dello spettacolare exploit tecnologico, questo seguito si pone come un crocevia definitivo rispetto all’evoluzione della saga – che nel progetto del cineasta canadese prevede altri tre sequel. Rielaborando la poetica del film precedente, Cameron si smarca dunque dalla narrazione binaria dell’uomo-alieno, e ne sintetizza la dicotomia all’interno della creatura avatar, togliendo dalla scena quasi tutti gli attori “in carne e ossa”.
È un dato importante, perché questa prospettiva obbliga finalmente l’autore a lavorare sulla caratterizzazione dei protagonisti. Il contrasto tra la forma umana e quella aliena non è più al centro del discorso – come succedeva nell’originale a Jake Sully, che trovava nel suo avatar una fuga dalla propria disabilità: qui l’umanità conflittuale dei personaggi risiede all’interno dei corpi Na’vi, ed emerge dalle loro dinamiche caratteriali e dal sistema di valori che condividono.
La storia di questo seguito è quella di un eterogeneo e ramificato nucleo familiare, costituito da Jake, trasformato definitivamente in Na’vi, la compagna Neytiri e i loro figli, adottivi e non. Un pericolo proveniente dal passato costringe i Sully a confrontarsi con sé stessi: nell’intreccio dei loro rapporti, difficili come quelli di tutte le classiche famiglie del cinema hollywoodiano, si sviluppa il cuore tematico del film, che è in fondo un mastodontico, strabordante, commovente family drama.
L’approccio di Cameron – che uno sceneggiatore potrebbe definire character-driven, ovvero trainato dai personaggi invece che dagli eventi della trama – proietta l’universo di Pandora su un piano narrativo distinto dal film precedente. L’esperienza ambientale del sequel, assolutamente sbalorditivo da un punto di vista tecnico, diventa l’occasione per farsi domande sulla natura dei protagonisti, la cui presenza emotiva si specchia nell’ecosistema straordinario che li circonda.
Il viaggio nel mondo acquatico dove la famiglia di Jake si trasferisce procede di pari passo con l’approfondimento dei personaggi: la costituzione elementale dell’ambiente sottolinea visivamente il loro spessore, che riverbera in una natura subacquea di impressionante portata emozionale. Lo dimostrano le splendide sequenze sul rapporto con le balene Tulkun, creature umanizzate che rispecchiano la conflittualità dei protagonisti terrestri. La costruzione dell’universo narrativo e visivo di questo secondo film riflette dunque l’urgenza di un’opera volutamente più intima: ne La via dell’acqua non è in ballo il destino di un pianeta, ma quello di una famiglia.
Il world building non è più un gioco tecnologico costruito sulla retorica universale del bene e del male, ma un approccio in tutto e per tutto umanista, meno archetipico di quello di Avatar, più complesso e sfaccettato. In questo modo cambia drasticamente il senso dell’operazione, insieme più espansa e più ristretta di quella precedente: più espansa perché amplia l’orizzonte narrativo oltre la struttura monolitica del primo film; più ristretta perché ha un occhio di riguardo verso l’emotività e l’affettività dei suoi protagonisti.
Se Avatar era un prototipo, La via dell’acqua palesa il vero interesse del regista nella creazione di questa saga epica, il cui elemento unificante non è tanto l’universo di Pandora, quanto i personaggi che lo abitano. Sono loro, con i propri conflitti, insicurezze e dolori, ad animare il racconto, e non il contrario: figure compiute, rotonde e definite ancora prima di averle viste con gli occhialini 3D.
Cameron, d’altra parte, non rinnega la natura pirotecnica del suo blockbuster. Centellina le sequenze d’azione, disponendole lungo il film in modo da amplificarne l’impatto emotivo, sfruttandole a pieno per muovere l’intreccio e insieme delineare la sensibilità degli eroi e degli antagonisti. Lo fa in modo spesso didascalico, ridonante e lineare, ma tenendo sempre in equilibrio il sentimentalismo della sostanza e la spettacolarità della confezione: l’ultimo atto, una sequenza d’azione fra le più emozionanti di tutta la filmografia di Cameron, ne è la prova inconfutabile.
E allora il mirabile comparto tecnico non è un semplice effetto speciale, ma un’estensione diretta della struttura narrativa, il completamento di un racconto dove forma e contenuto dialogano costantemente, rafforzandosi a vicenda. La via dell’acqua realizza in questo modo ciò che il film originale non era riuscito a fare, e rende Avatar un’esperienza cinematografica olistica, capace di far vibrare insieme gli occhi e il cuore. Un’immersione straordinaria nelle potenzialità della nuova frontiera tecnologica, ma anche nella profondità sentimentale del mezzo cinematografico, con uno sguardo umano finalmente, gloriosamente tridimensionale. Non sarà la via più originale, ma è sicuramente quella giusta.